2.
Prajāpati e gli
armenti (o gli animali).
1.
Prajāpati emette gli
armenti – e, tra essi, l’uomo. Infatti, i cinque armenti sono solo il cibo, per Prajāpati.
ŚBM, 7, 5, 2, 6 e 7. All’inizio, Prajāpati era qui, unico. Egli
desiderava: “Posso emettere il cibo1. Posso generare”. Egli produceva gli
armenti (paśūn) dai prāṇā (sensi). (...) Emesso il cibo (= gli armenti), se
(lo) poneva – da davanti a dietro – in se stesso. Perciò, chiunque prepari (per
se stesso) il cibo, se lo pone – da davanti a dietro – in se stesso.
ŚBM,
7, 5, 2, 28. Infatti, quando (yátra) Prajāpati
intendeva immolare gli armenti, loro – in procinto di essere immolati – erano
afflitti [angosciati, aśocaṃs]. Con questi
utsargāḥ1, (Prajāpati)
aveva allontanato la loro angoscia – il male. Allo stesso modo, questo
(yájamāna), con questi utsargāḥ, allontana la
loro angoscia – il male.
Per Prajāpati, le geniture sono solo
il cibo (ŚBK, 4, 9, 1, 2) e così sono come gli armenti. – L’uomo si distingue dagli altri armenti. Infatti,
Prajāpati stesso – divorante – rende
l’uomo-mente il divorante degli armenti:
ŚBM,
7, 5, 2, 6. In quanto (Prajāpati) li produceva dai
prāṇā, perciò dicono: “Gli armenti sono i prāṇā”. (...) In quanto (Prajāpati)
costituiva l’uomo dalla mente,
perciò dicono: “L’uomo è il primo,
il più vigoroso tra gli armenti”. (...) In quanto (Prajāpati)
costituiva l’uomo dalla mente,
perciò dicono: “L’uomo è tutti gli armenti”. Poiché tutti questi (armenti)
divengono dell’uomo. – Anche ŚBM, 7,
5, 2, 14.
Il brāhmaṇá e lo kṣatrá sono come
l’uomo-mente sugli armenti. Infatti, Prajāpati – divorante delle geniture – ha reso divoranti il brāhmaṇá e lo kṣatrá:
egli ha situato gli armenti e le víśaḥ
– come cibo – davanti al brāhmaṇá e allo kṣatrá (ŚBK, 4, 9, 1, 10 e 14). Gli armenti – nelle dimore – sono il cibo per i Devā:
ŚBM, 4, 6, 9, 1 e 2. Infatti, i Devā stavano (nel) sattrá:
“Possiamo raggiungere la śrī. Possiamo essere gloriosi.
Possiamo essere i divoranti”. Il cibo ottenuto desiderava di andare
via da loro. Gli armenti sono il cibo. Gli armenti desideravano di andare
via da loro: “Infatti, in quanto questi (Devā) sono estenuati, ci possono
ferire! In quale modo ci
tratteranno?”. (...) Li avevano messi nelle dimore.
In questo modo, il cibo ottenuto non
andava via da loro.
PB
– JB
PB,
7, 10, 13. Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro erano andati via da
lui. Si rivolgeva a loro (tān ... abhivyāharat), con questa melodia. Loro
rimanevano (atiṣṭhanta) con lui. Loro
divenivano sottomessi.
PB, 7, 10, 14. Con il desiderio di armenti, può cantare (per se stesso),
con questa (melodia). Diviene provvisto degli armenti.
JB,
1, 148. Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Egli
desiderava: “Gli armenti possono non andare via da me. Possono tornare verso di
me”. (...) In questo modo, infatti, gli armenti tornavano verso di lui. In questo modo, divenivano coloro i quali
non andavano via da lui. Egli diceva: “Ho sottomesso questi armenti!”.
JB,
1, 148. Gli armenti – sottomessi – rimangono vicini a lui (o lo servono, upatiṣṭhante).
Gli armenti tornano verso di lui. Gli armenti non vanno via da lui, (da) colui
il quale così conosca.
JB, 3, 230. Prajāpati
emetteva gli armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Egli desiderava: “Gli
armenti possono non andare via da me. Possono tornare verso di me”. Egli vedeva
questa melodia. Cantava, con questa (melodia). In questo modo, infatti, gli
armenti tornavano verso di lui. In
questo modo, divenivano coloro i quali non andavano via da lui. Egli diceva:
“Questo rayí2 è rimasto
(asthād) con me!”.
JB,
3, 230. Il rayí rimane (tiṣṭhaty) con lui. Gli armenti tornano
verso di lui. Gli armenti non vanno via da lui, (da) colui il quale così
conosca.
PB, 22, 9, 2. Infatti, (...) Prajāpati emetteva l’uomo
(puruṣam). Egli raggiungeva l’ādhipatya3 di tutto il cibo.
PB, 22, 9, 3. Colui il quale così conosca raggiunge l’ādhipatya di tutto il cibo.
JB, 3, 91. Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Egli
desiderava: “Posso dare gli armenti a me
stesso (ātman ... yaccheyam)”. Egli
vedeva questa melodia. Così, dava gli armenti a se
stesso.
JB, 3, 91. L’udgātṛ́4 è Prajāpati. Con lo
Yaṇva, egli
dà gli armenti a se stesso.
JB, 3,
256. Prajāpati emetteva il cibo5.
Spaventato dalla diminuzione6, (il cibo) andava via nelle direzioni.
Egli (Prajāpati) desiderava: “Posso ottenere il cibo”. Egli vedeva questa
melodia. Con questa (melodia7): “È rimasto (’sthād),
qui! È rimasto, qui!”, (Prajāpati) otteneva8 il cibo, da tutte le
direzioni.
JB, 3,
256. Colui il quale può essere con il desiderio di cibo può dire (questa
melodia) quattro volte. Le direzioni sono quattro. Ottiene il cibo dalle
direzioni9.
JB,
1, 160. (Prajāpati) non li (= gli armenti) discerneva – con un solo colore
(ekarūpān). (...) Così, distingueva i loro colori10. Loro divenivano
con differenti colori (nānārūpā) – il bianco, il rosso, il nero. Dapprima, loro
furono con un solo colore: rossi. (Infatti, il rosso è il colore più abbondante
tra gli armenti, PB, 16, 6, 2).
JB,
1, 160. Ottiene gli armenti con molti colori, con differenti colori. Diviene
con un armento numeroso, colui il quale così conosca.
JB, 1, 274-279. Infatti, colui il quale separa e i Devā e gli uomini, si separa dal male. (...) Poiché i Devā sono velati (channā), nascosti,
indistinti, in un certo senso. (...) Poiché gli uomini (manuṣyāḥ) sono svelati, evidenti, distinti, in un certo senso.
(...) ...perciò, i Devā non ritornano. ...perciò, inoltre, le geniture
(o gli uomini, prajāḥ) e vanno via e fanno ritorno. (Gli armenti) vanno lontano, la mattina;
loro (te, masc.) tornano insieme, la sera. Lo sperma è versato, in avanti; è
generato (prajāyate, dopo la gestazione), indietro. (...) ...perciò, i Devā sono tutti con
un solo colore: il bianco. ...perciò, inoltre, le geniture sono con differenti
colori: il bianco, il rosso, il nero. Infatti, colui il quale così conosca
separa e il colore divino e il colore umano (manuṣyarūpaṃ); si separa dal
male. (...) ...perciò, i Devā sono limitati.
...perciò, inoltre, le geniture sono illimitate. “Non conosciamo quanti siano i
brāhmaṇāḥ, quanti i rājanyāḥ, quanti i vaíśyāḥ, quanti gli śūdrāḥ”.
Gli uomini vanno via e fanno ritorno (nelle loro
dimore), generano, sono con differenti colori11, sono illimitati (o
più numerosi dei Devā, così come gli armenti – il cibo – sono più numerosi degli stessi
uomini, nello ŚBM, 2, 3, 2, 18). Tutto ciò può avere senso solamente per i «divoranti» degli uomini. Infatti, i Devā assoggettano gli
uomini – i quali sono come gli armenti, per i Devā: «...perciò, gli animali addomesticati (grāmyāḥ) dimorano
all’interno del villaggio (’ntar grāme). (...) Perciò,
gli animali addomesticati vanno lontano, la mattina; loro tornano insieme,
la sera. (...) Perciò, gli animali addomesticati sono
con
differenti (o distinti) colori. (...) Perciò, gli animali addomesticati la sera
separatamente, ordinatamente vanno verso le dimore (gṛhān)» (JB, 1, 106). Come sono i ‘molti’, nelle loro dimore, per i ‘pochi’?
JB, 1, 104. La matrice dell’ordine è la dimora. Con la
forza di questa sillaba (ā), gli uomini (prajā) nati qui e si allontanano e ritornano
(ā ... gacchanti, nelle dimore).
JB, 2, 90. Loro (le vacche) – vedendo il padre, Prajāpati – andarono via – rallegrate. Andate via, loro si propagarono in grande.
I Devā furono preoccupati dalla loro dispersione.
Guidate fuori, con l’utsedhá, riprese, con il niṣédha, (i Devā) se le posero in se stessi.
Gli armenti tornano
da Prajāpati.
In questo mito, gli stessi Devā – non Prajāpati
– si impongono sugli armenti – rendendoli coloro i quali tornano da loro: «Infatti, i Devā prevalevano. Mettevano (gli
armenti) nelle dimore. In questo modo, il cibo non andava via da loro» (ŚBK, 5, 8,
3, 2). «Perciò, gli animali addomesticati sono rinchiusi12» (PB, 6, 8, 14).
Nella TS, 6, 5, 11, 1 e 2, gli armenti che ritornano al villaggio («...gli animali addomesticati
si avvicinano [upāvayanti; punar āyanti, PB, 6, 8, 13 e 7, 2, 6]
al villaggio») sono associati a questo mondo («Poiché questo mondo è ancora
e ancora, in un certo senso») e alle piante
che rinascono («...le piante si originano [ā bhavanti] ancora»). Così, si rigenera solo il cibo.
«Perciò, questo mondo genera (o è generato13, prajāyate) ancora e ancora» (PB, 6, 8, 16). Le geniture si rigenerano, come cibo
per Prajāpati
(PB, 21, 2, 1), e così il vaíśya
si
rigenera, come cibo per il brāhmaṇá e per il rājanyá (PB, 6, 1, 10).
2.
Le geniture, gli armenti sono solo il
cibo, per Prajāpati. Perciò, Prajāpati
emette le geniture, gli armenti. – Prajāpati afferra, prende i prāṇā delle
geniture, degli armenti: «Allora dissero:
“Era preoccupato dalla dispersione (parāvāpād
abibhed) di queste geniture emesse”» (JB, 2, 288). Prajāpati
si afferma così sulle geniture, sugli
armenti.
ŚB
ŚBM,
7, 5, 2, 4. Infatti, quando (yátra) Prajāpati
intendeva immolare gli armenti, loro – in procinto di essere immolati – avevano
desiderato di allontanarsi (da lui). Li afferrava insieme nei respiri (prāṇā1).
Afferrati insieme nei respiri, (Prajāpati) se li poneva – da davanti a dietro1
– in se stesso.
ŚBM,
7, 5, 2, 5. È fatto qui ciò che facevano i Devā.
Gli armenti non desiderano (o non tentano) di allontanarsi da lui. Ma
(lo) fa. “Ciò che avevano fatto i Devā, che
(io) possa farlo!”. Allora, afferrati insieme (gli armenti) nei prāṇā,
(lo yájamāna) se li pone – da davanti a dietro1
– in se stesso.
ŚBM,
2, 3, 3, 7 e 8. In quanto (il Sole) è Morte, perciò le geniture da questa parte
(al disotto) di lui muoiono (sono mortali, mártyā,
K, 3, 1, 9, 1). Allora quelle dall’altra parte sono i Devā.
Perciò, inoltre, loro (= i Devā) sono amṛ́tā.
Tutte queste geniture (al disotto del Sole) sono trattenute nei prāṇā,
attraverso i raggi di lui (di Morte, del Sole). Perciò, inoltre, i raggi sono
estesi sino ai prāṇā (di queste geniture). Preso
il prāṇá di colui il quale desidera, egli (Morte) sorge (e) costui muore. Come,
in questo mondo, non è rispettato (colui il quale) è legato e allora, ogni volta (che) si desidera, (lo) si uccide,
così, inoltre, nel mondo lassù, (Morte) induce a morire ancora e ancora colui
il quale, non sottratto a Morte, va poi al mondo lassù.
PB, 7, 5, 1 e 2. Prajāpati desiderava: “Posso essere molteplice. Posso
generare”. Egli rimaneva – afflitto, infelice. Egli vedeva questo āmahīyava. Così
(con questo āmahīyava), emetteva queste geniture. Emesse, loro erano felici (amahīyanta).
(...) Emesse, loro erano andate via da lui. Prendeva (...) i
loro prāṇā. Prese nei prāṇā, loro tornavano ancora vicine a lui. Dava
(...) loro ancora (indietro, punaḥ) i prāṇā. Loro erano insorte (o si erano sollevate)
contro di lui. Spezzava2 (...) le loro collere. In questo modo, infatti,
loro rimanevano (atiṣṭhanta) con
lui, per il śraíṣṭhya2.
PB, 7, 5, 3. I pari (samānāḥ) rimangono (tiṣṭhante) con
colui il quale così conosca, per il śraíṣṭhya.
PB,
17, 10, 2. Prajāpati emetteva le geniture. Emesse, loro
andavano via da lui. Egli vedeva questo indistinto sávana del mattino. Così, (Prajāpati)
andava (vyavait) al loro centro. Loro tornavano
vicine a lui. Lo circondavano.
PB, 17, 10, 3. Con
il desiderio di un villaggio (o di un clan, grāmakāmo),
può sacrificare. In quanto diviene questo indistinto sávana del mattino, va al
loro centro (= al centro delle geniture o degli uomini, prajāḥ).
Tornano vicine a lui. Lo circondano.
JB, 3, 8. Infatti, (...) Prajāpati emetteva
le geniture. Emesse, loro erano disperse, in diverse direzioni. (...) Con
questi due (atirātrau3),
le circondava (paryagṛhṇād) da entrambe le
parti: con questo, da quaggiù; da lassù, con quello4. Le (...)
tratteneva.
JB, 3, 8. L’udgātṛ́ è Prajāpati. Egli (...) emette
le geniture. Con questi due (...), le trattiene: con questo, da quaggiù, da
lassù, con quello; per (ri)prendere, per non disperdere le geniture. La
ricchezza (vittá) di colui il quale
così conosca non è dispersa.
JB,
3, 218. Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro
andavano via da lui. Egli desiderava: “Gli armenti
possono non andare via da me. Possono tornare verso di me”.
Egli vedeva questa melodia. Così (con questa melodia), li intrappolava
(paryāsyat5). Attraverso il śraíṣṭhya,
li sottometteva (upāgṛhṇāt6). Loro stavano con lui (’sminn
aramanta).
JB, 3, 218. Gli
armenti stanno con lui (ramante ’smin). Diviene provvisto degli armenti, colui
il quale così conosca.
JB, 2, 110. “Prajāpati
emetteva gli armenti. Emessi, loro fuggivano da lui. Desiderava (o tentava) di
trattenerli, con l’agní-ṣṭomá. Loro
andavano oltre (atyādravan) ad esso. (...) Desiderava di trattenerli, con il ṣoḍaśín.
Loro andavano oltre ad esso. Con i paryāyāḥ, giungeva ad accerchiarli (paryāyam
ait7). (...) Li (...) afferrava (paryagṛhṇāt)”.
Gli armenti più
piccoli (kṣudrāḥ paśava)
sfuggono ancora a Prajāpati: «“Di questi
(armenti) afferrati (o circondati), come i piccoli pesci possono cadere fuori
dalle maglie della rete7, così quelli che furono i piccoli armenti,
loro caddero fuori (’tiśeduḥ). Li desiderava: ‘Ottenuti, li posso dare a
me stesso’. (...) Ottenuti, (...) li dava a se stesso (ātmany ayacchat)”» (JB, 2, 110). Anche un vaíśya
con pochi armenti si nota di meno e così può sfuggire allo kṣatrá?
JB, 3, 153. Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro
andavano via da lui. Con il primo giorno, desiderava (o tentava) di
trattenerli (avivārayiṣata). Non li
tratteneva. Con il secondo (giorno), non li tratteneva. (...) Nel sesto giorno,
li tratteneva, con questa melodia. Egli diceva: “Il goṣṭhá8 è divenuto per me,
qui, la melodia degli armenti!”.
JB, 3, 153. Gli
armenti sono fermi da lui8 (dhriyante ’smin). Diviene provvisto degli
armenti, colui il quale così conosca.
JB, 1, 172. Prajāpati emetteva gli
armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Li tratteneva (avārayata), con il
vāra-vantīya9. (...) In quanto il vāra-vantīya diviene la melodia
dell’agní-ṣṭomá, (è) per la
presenza degli armenti, per il non andare via degli armenti.
3.
Prajāpati dà
il cibo agli armenti e così gli armenti tornano
vicini a Prajāpati. Gli armenti ricevono
il cibo e così sono il cibo, danno il cibo (il ‘sacrificio’).
I Devā comprendono
come non si possa offrire solamente nella propria bocca. Allora i Devā comprendono
Prajāpati: per sostentare se stesso, egli sostenta gli armenti (e li induce a prosperare).
ŚBK, 6, 1, 1, 1-3. In questo modo, gli Ásurā con l’altezzosìtà – “In chi noi possiamo offrire?” –
offersero nelle loro stesse bocche.
Loro, offerenti in
questo modo, perirono. (...) Allora i Devā furono in un certo senso senza altezzosità (o senza arroganza).
Loro offersero l’uno nell’altro. A
loro offerenti in questo modo, Prajāpati diede se stesso. Infatti, il
sacrificio è Prajāpati. Egli diveniva il loro cibo. Poiché il sacrificio è il cibo dei Devā. I Devā –
“Questo diverrà mio! Questo diverrà mio!” – non concordarono su di lui. Loro – non
concordi – dissero: “Avanti, che (noi) corriamo una corsa per lui! Questo (Prajāpati) diverrà di colui il quale vincerà di noi!”. “Sì”.
Bṛ́has-páti e Índra – tra i Devā – conseguono Prajāpati, divenuto il cibo
(ŚBM, 5, 1, 1, 4 e
6; JB, 2, 128). Così, gli armenti e le moltitudini sono il cibo del brāhmaṇá e dello kṣatrá (ŚBK, 4, 9, 1, 10 e 14; K, 6, 2, 2, 12 e 13). In quanto i congiunti e le
moltitudini ricevono il cibo del
brāhmaṇá e del rājanyá (JB, 2, 148).
ŚBK, 5, 3, 4, 9-12.
Inoltre, (Índra) fu preoccupato dal
loro (dei Marútaḥ, delle víśaḥ)
andare via: “In quanto questi (Marútaḥ) possono andare via da me. (In quanto possono stare con un altro, M, 4, 3, 3, 11)”. Se li
rendeva coloro i quali non andavano via
(da lui). (...) Infatti, i Marútaḥ sono le víśaḥ.
Infatti, le víśaḥ sono il cibo. (...) Come
lo kṣatríya può mangiare nello stesso pātra con il vaíśya (con la víś, M, 4, 3, 3, 15), per il desiderio della vittoria,
così. In quanto hanno preso per lui (per Índra) la
stessa presa con loro (con i Marútaḥ).
ŚBM, 4, 6, 5, 4. Poiché, con il cibo, è
afferrato questo tutto. Perciò,
quanti mangiano il nostro cibo, tanti loro1 divengono tutti (sárve)
afferrati da noi.
ŚBK, 4, 1, 4, 12. Infatti, quando sazia (púṣyaty) gli armenti, allora attinge al sacrificio (yajñaṃ prāpnoti).
ŚBM, 13, 7, 1, 1.
Offerto se stesso in tutti gli esseri e gli esseri in se stesso, (Bráhman)
attingeva (páryait) al śraíṣṭhya, al svārājya, all’ādhipatya
di tutti gli esseri.
Nello
stesso uomo, gli armenti conoscono
colui il quale è la loro vita e poi la loro morte. Ma l’uomo conosce come Prajāpati stesso desideri solo
il cibo prima di emettere le
geniture e gli armenti (ŚBM,
3, 9, 1, 2; M, 7, 5, 2, 6). – Prajāpati non
può limitarsi a divorare. Per ridurli solo a un cibo, Prajāpati si lascia
rendere un cibo dagli armenti:
PB
– JUB – KS – JB
PB,
6, 7, 18. Infatti, il sacrificio –
divenuto un cavallo – andava via dai
Devā. I Devā lo avevano indotto a stare fermo (aramayaṁs), con il prastará2. Perciò, il cavallo – strigliato, con il prastará
– si delizia. In quanto l’adhvaryú2 prende
il prastará, (è) per placare, per non turbare il
sacrificio.
PB, 6, 7, 19. Prajāpati emetteva
gli armenti. Emessi, loro erano andati via da lui, affamati.
Dava loro un prastará2 – il cibo. Loro tornavano vicini a lui. Perciò, il prastará è agitato lievemente
dall’adhvaryú2. Poiché gli
armenti tornano vicini alla paglia agitata (come cibo).
PB, 6, 7, 20. Gli armenti tornano vicini a
colui il quale così conosca.
Quando
tornano da Prajāpati,
gli armenti (o le geniture) divengono il cibo
per lui. Istruiti da Prajāpati, gli uomini (sugli
armenti e sugli altri uomini) danno, solo
per avere. In quanto ricevono tutto
dall’uomo, il quale li assiste e li sostenta, gli armenti non possono sottrarsi a lui. Gli armenti rimangono con l’uomo, per ridargli tutto e per sostentarlo. Come l’uomo,
sugli armenti, così è il rājā, sulle víśaḥ. Infatti, gli armenti e le víśaḥ
sono solo il cibo (ŚBK, 6, 2, 2, 12-14).
JUB,
1, 11, 1-4. Prajāpati emetteva le geniture. Emesse, loro da ogni
parte, tutt’attorno lo circondavano, anelanti al cibo. Diceva loro: “Con quale
desiderio siete?”. “Con il desiderio di cibo”, dicevano. (...) Egli diceva:
“Infatti, (noi) viviamo di più di questi
armenti. Darò anzitutto a loro”.
KS, 8, 13. Infatti,
Prajāpati distribuiva le
parti – il sacrificio – ai Devā. Egli pensava:
“Ho escluso me stesso”. Egli vedeva l’odaná3.
Lo spartiva (o preparava) (come) parte per se stesso (ātmane ... akalpayat). Questa è la parte di Prajāpati. (...) E i Devā e gli Ásurā rivaleggiavano.
I Devā onoravano Prajāpati (prajāpatim ... abhyayajanta). Gli Ásurā offrivano l’uno nella bocca dell’altro. I Devā avevano cotto l’odaná3. Lo avevano
presentato (come) parte a Prajāpati. Prajāpati – vedendo una parte – tornava4 vicino ai Devā. In questo modo, i Devā prosperavano.
Gli Ásurā perivano4.
KS, 37, 1.
Prajāpati emetteva le geniture. Loro erano andate via da lui. Le desiderava:
“Possono tornare vicine a me”. Egli cuoceva l’odaná. Divenuto il cibo, egli rimaneva, unico (ekadhā). Non
(avendo) trovato un cibo altrove, loro (le geniture) tornavano5 insieme (ekadhā) verso Prajāpati, per il
cibo.
KS, 37, 1.
Infatti, (quante) geniture numerose e lontane (yāvatīr ... kiyatīr)
parlano la parola, (tante) loro tornano insieme (ekadhā) verso di lui, per il
cibo; (verso) colui il quale è consacrato, con questo (odaná). (...) Divengono (o prosperano, bhavanti) tutti questi, in un certo senso; divengono tutti i cibi, tutti gli uomini. Ottiene6 tutti i cibi, tutti gli uomini.
JB,
2, 148. Prajāpati emetteva le geniture (o gli uomini, prajā). Non
conosceva (nessuna) tra queste (geniture) emesse. Le geniture non conoscevano:
“Prajāpati
ci ha emesse”. Egli rifletteva: “Come io posso emettere queste
geniture (e) non posso conoscere (nessuna) tra queste (geniture) emesse?”.
(...) In questo modo, con questo (sacrificio), se le richiamava vicino (upāhvayata). (...) In
questo modo, infatti, loro lo conoscevano: “Infatti, noi siamo di questo (Prajāpati);
questo (Prajāpati) fu nostro”. Allora, divenuto
il cibo, (Prajāpati) fu visto (dadṛśe)
da loro. Le geniture anelanti al cibo tornarono
verso di lui. Il rājanyá dal
quale le moltitudini possono andare via, il brāhmaṇá (dal
quale possono andare via) i congiunti (sajātās6),
costui può sacrificare, con questo (sacrificio, l’upahávya).
JB,
2, 149. Allora, in questo (sacrificio), (lo yájamāna)
può dare (dadyāt) molto cibo cotto. Le geniture anelanti al cibo tornano verso di lui.
JB,
2, 139 e 140. Egli (Índra) andava dai Devā: “Con voi, con la forza, che (io) uccida
questo Vṛtrá!”. Gli dicevano: “Infatti, che (tu) lo dia a noi, questo
sacrificio proprio solo a te!”. Perciò,
nel rājā desiderante di vincere, le moltitudini aspirano ad un’elargizione. Perciò, inoltre, il rājā
desiderante di vincere dà alla moltitudine un’elargizione. (...) Con loro,
con la forza, Índra
uccideva Vṛtrá. I Devā
vincevano gli Ásurā. Egli – ucciso Vṛtrá, vinto – vedeva separate queste loro (dei Devā) eccellenze – splendenti. (...) Egli rifletteva: “In quale modo io
posso appropriarmi6 di
queste loro eccellenze?”. (...) Così, si appropriava (samavṛṃkta) di tutte le loro eccellenze (śriyas). (...)
Loro sedevano (...) vicini a lui: “Che (noi) siamo delle moltitudini (viśas), per te! Che (tu) ci induca ad aver
parte (dopo di te) nel sacrificio!”. Come
le mogli (bhāryā) siedono vicine al
marito, allo stesso modo. (...) Come un rājā – vinto – può indurre i sostentati
(bhāryān) ad aver parte nella sua ricchezza (sve vitte), così li induceva ad
aver parte (nel sacrificio).
«Inoltre, Índra è lo kṣatrá. I Marútaḥ sono le víśaḥ. Infatti,
attraverso la víś, lo kṣatríya
diviene provvisto della forza» (ŚBK, 5, 3, 4, 4 e
8 con K, 6, 1, 3, 4). Ma ŚBK, 1, 5, 1, 32. «Infatti, Váruṇa è lo kṣatrá. Il maschio
è il vigore. Pone il vigore nello kṣatrá. Infatti, i Marútaḥ
sono le víśaḥ. Infatti, la femmina
è senza vigore. Rende la víś senza vigore (senza virilità, avīryām)». Anche ŚBM, 1, 3, 2, 14. «Avendo reso il divorante più limitato, più esiguo, pone in lui il
vigore, la forza. (...) Avendo reso il divorato più illimitato, più abbondante
(o numeroso), lo rende senza vigore, più debole. Perciò, inoltre, un rājā soggioga
una víś illimitata, stabilito anche in un’unica sede».
JB,
1, 116. Infatti, questi due mondi – pur insieme – erano divisi. Non cadeva
niente di entrambi. Loro – i Devā (e) gli
uomini – erano affamati. Poiché i Devā vivono della elargizione da quaggiù; gli
uomini, della elargizione da lassù. (...) (Le oblazioni non andavano verso
l’alto da quaggiù; la pioggia non era data verso il basso da lassù, JB, 3,
216). Egli (Prajāpati) portava l’offerta (havyam avahat) ai Devā verso l’alto da quaggiù.
Induceva la pioggia a versarsi (...) da lassù. Rendeva questi due mondi congiunti.
Questi (due mondi) abbondavano per (o in
accordo con) il (suo) desiderio7. Questi due mondi abbondano (pinvāte)
per il desiderio (di) colui il quale così conosca.
Il
latte è il legame evidente tra Prajāpati (che dà) e le geniture (che ricevono).
JB,
2, 228 e 229. Prajāpati emetteva le geniture. Emesse, loro perivano. Diveniva
il rettile, qui, altro dai serpenti. Egli emetteva delle seconde (geniture).
Loro perivano. Loro divenivano i pesci. Egli emetteva delle terze (geniture). Loro
perivano. Divenivano questi uccelli. Egli rifletteva: “Queste tre geniture che
ho emesse – senza il brāhmaṇá (JB, 2,
185), senza il cibo, senza il
sacrificio – sono perite. Avanti, posso emettere le geniture dal brāhmaṇá, dal cibo, dal sacrificio!”. Egli si poneva il cibo in se stesso. (...)
Divenivano i (due) seni (di Prajāpati). (...) Diveniva il latte. (...) Egli si
pose il riso (e) l’orzo in se stesso. È il latte del riso (e) dell’orzo. (...)
Con questi (sacrifici), emetteva queste geniture. Dava a loro – a quelle
provviste dei seni – il cibo. Loro divenivano le sue geniture provviste del
cibo.
JB, 1, 187. Egli emetteva delle quarte (geniture).
Egli rifletteva: “In quale modo queste mie geniture – emesse – possono non
perire?”. (...) Così, (...) le sfiorava. Loro – dotate da lui della forza (ūrjā ... samaktā) – si
accrescevano (avardhanta). Egli diceva: “Ho sostentato bene queste
geniture!”. (...) Colui il quale così conosca sostenta bene la genitura.
JB, 3, 148. Prajāpati emetteva le geniture. Le emetteva, prive del
cibo. Loro – affamate – si divoravano l’un l’altre.
Prajāpati rifletteva: “In quale modo queste mie geniture possono non essere affamate?”. (...) Così,
(...) le sfiorava. Loro – dotate da lui della forza – si accrescevano
(avardhanta). (...) I sostentati (bhāryā) di colui il quale così conosca si accrescono –
dotati della forza (iṣā ... samaktā).
PB,
15, 5, 35. Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro erano andati via da
lui. Li richiamava indietro (tān ... anvahvayat), con questa melodia: “Ascolta!
Vieni qui! (śrūdhiyā ehiyā)”. Loro tornavano vicini a lui8. In
quanto diviene questa melodia, (è) per il ritorno degli armenti.
PB,
15, 5, 36. Gli armenti tornano vicini a colui il quale così conosca.
JB, 3, 274. Prajāpati emetteva Yajñá9.
Lo dava ai Devā. Spaventato dalla diminuzione, egli (Yajñá) fuggiva.
I Devā desideravano: “Ci può ascoltare”. (...) Lo richiamavano indietro (anvahvayan),
con questa (melodia): “Ascolta!”. Egli ascoltava. Gli dicevano: “Torna verso di
noi!”. “Infatti, sono spaventato dalla diminuzione”. “No”, dicevano. Per lui –
“Infatti, fate per me la fiducia!” – facevano10 la fiducia (śraddhām):
“Ascolta!”. Se lo richiamavano (vicino): “Vieni qui!”. In questo modo, infatti,
Yajñá non andava via da loro (tebhyo ... nodakrāmat). In questo modo, tornava vicino a loro11.
JB,
3, 155. Prajāpati emetteva questo sacrificio – il pṛ́ṣṭhya-ṣaḍahá. Emesso, egli fuggiva. Desiderava (o tentava) di trattenerlo,
con il rathantará.
Non lo tratteneva. (...) Lo tratteneva con il vāra-vantīya. (...) In quanto
diviene il vāra-vantīya (...), è per trattenere il sacrificio.
JB,
2, 112. “Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Egli
diceva ad Agní: ‘Che (tu) li trattenga, per me!’. Egli non li (...)
tratteneva. Egli diceva a Índra: ‘Che (tu) li trattenga, per me!’. Egli non li
(...) tratteneva. (...) Egli diceva a Víṣṇu: ‘Che (tu) li trattenga, per me!’. Egli (Víṣṇu) li tratteneva
(...) con il vāra-vantīya”.
PB,
20, 3, 2. Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro erano andati via da lui.
Non li otteneva, con l’agní-ṣṭomá.
(...) Non li otteneva, con il ṣoḍaśín. (...) In merito a loro, diceva ad Agní: “Che (tu) intenda12
ottenerli, per me!”. Agní non li (...)
otteneva. In merito a loro, diceva a
Índra: “Che (tu) intenda ottenerli, per me!”. Índra non li (...) otteneva.
In merito a loro, diceva ai Víśve-Devā: “Che (voi)
intendiate ottenerli, per me!”. I Víśve-Devā
non li (...) avevano ottenenuti. In merito a loro, diceva a Víṣṇu: “Che (tu) intenda ottenerli, per me!”. Víṣṇu li (...) otteneva.
Note.
2.1
1 Le geniture stesse sono come
gli armenti. Perciò, soltanto gli armenti sono per il brāhmaṇá e soltanto le víśaḥ
sono per lo kṣatrá (e le víśaḥ sono
come gli armenti). – Gli utsargāḥ sono le sottrazioni (all’angoscia). Gli armenti sono anche le «molte forme» di Agní e così Prajāpati li immola: «“Io desidero le forme di Agní. Avanti, che (io) li immoli agli Agnáya, per il (mio) desiderio!”.
Li immolava agli Agnáya, per il
desiderio (delle forme di Agní). (...) “Avanti, che (io) deponga le teste!”. Strappate le teste (degli
armenti), egli le deponeva (upādhatta)» (ŚBM,
6, 2, 1, 6 e 7). Ma Prajāpati non emette il sangue degli armenti – una crudeltà (MS, 4, 2, 9).
2 La fortuna.
3 L’ādhipatya
è la supremazia: «Perciò, tra gli armenti (o tra gli animali) gli uomini sono
di Índra. Perciò, (gli uomini) sono gli ádhipataya di tutti questi
(armenti, in M, 4, 5, 5, 7), sono
i signori (īśata) di tutti (loro). Poiché sono di Índra» (ŚBK, 5, 6, 7, 3). Agní
stesso è il signore degli armenti: «Loro
(questi armenti, K, 5, 4, 1, 9) lo circondano, da ogni parte» (ŚBM, 4, 3, 4, 11).
4 Colui il quale canta le melodie. La melodia Yaṇva: «Come
può aggirare un armento (vrajaṃ) con un laccio, con una corda, così egli
circonda (afferra) gli armenti (con lo Yaṇva), per non disperder(li). La ricchezza di colui il quale così conosca non è dispersa» (JB, 3, 92).
5 Gli armenti e le geniture.
6
«“Spaventato da te, (Prajāpati) ha penetrato questa (terra)”» (ŚBM,
10, 1, 3, 3). La diminuzione preoccupa il cibo divorato e il divorante del
cibo: «Perciò, il vaíśya – per quanto divorato
– non diminuisce (o non si esaurisce). Poiché è emesso dal membro. (...) Perciò, è il divorato (ādyo) e del brāhmaṇá e del rājanyá. Poiché è emesso più in basso
(di entrambi)» (PB, 6, 1, 10). Anche ŚBM, 1, 6, 4, 14. «Poiché è la prosperità, quando, il cibo
vecchio (o il cibo di prima) non esaurito, arriva allora del nuovo cibo». Forse Prajāpati pensa in questo modo
alle geniture (TB, 1, 6, 2, 3 e 4).
7
I Devā e il mondo celeste: «Con questa (melodia): “È
rimasto (’sthād), qui! È rimasto, qui!”, lo inducevano a
fermarsi (o a rimanere). Lo fissavano, con questa (melodia)» (JB, 3, 255). Anche JB, 3, 164. «Infatti,
questi mondi – spaventati – andavano
via dai Devā – vittoriosi. Loro (i Devā)
desideravano: “Questi mondi possono
tornare verso di noi. Possono non
andare via da noi”. (...) In questo modo, infatti, questi mondi tornavano
verso di loro. In questo modo, divenivano coloro i quali non andavano via da
loro. Loro (i Devā) dicevano: “Infatti, questi mondi ci hanno fatto godere la
gioia!”. (...) Questi mondi gli fanno godere la gioia. Questi mondi tornano
verso di lui. Questi mondi non vanno via da lui, (da) colui il quale così
conosca».
8 Anche JB, 1, 88. «Prajāpati emetteva
le geniture. Emesse, loro da ogni parte, tutt’attorno lo circondavano, anelanti
al cibo. Per loro, emetteva il cibo, con il suono híṃ.
Con il suono óṃ, tratteneva
(il cibo) emesso».
Anche JB, 3, 214.
9 «Gli Áṅgirasaḥ desideravano: “Possiamo ottenere gli armenti”. (...) In questo modo,
infatti, gli armenti si raccoglievano verso (’bhinyaveṣṭanta) di loro da tutte le
direzioni» (JB, 3, 250). Anche ŚBM,
5, 5, 1, 6. «Perciò, inoltre,
il cibo è portato verso il rājā da ogni direzione». Così, ŚBK, 7, 4, 2, 13.
10 «Prajāpati
emetteva gli armenti. Di questi (armenti) emessi, non erano conosciute (prājñāyanta)
le forme (o i colori, rūpāṇi).
(...) Con queste (melodie), (Prajāpati) poneva le loro
forme. (...) Colui il quale così conosca ottiene degli armenti provvisti di
forme (rūpaṇvataḥ)» (JB, 3, 223). «Infatti, con
questa (melodia), Prajāpati emetteva gli
armenti, abbondanti. Poneva in loro
una forma. In quanto diviene questa melodia, pone una forma negli armenti» (PB, 8, 5, 6). Anche ŚBK, 1, 1, 2, 3. Così, TB, 2, 2, 7,
1. «Prajāpati emetteva le geniture. Loro – emesse – si
stringevano. Le penetrava, con una forma. Perciò, dissero: “Prajāpati è la
forma”. Le penetrava, con un nome. Perciò, dissero: “Prajāpati è il nome”». Anche PB, 24,
11, 2. «Prajāpati emetteva le geniture. Loro – non
distinte, non concordi – si erano divorate l’un l’altre. Così, Prajāpati
era afflitto...».
11 La víś è l’abbondanza – e il cibo – ed è correlata con un armento pezzato (ŚBM, 5, 1, 3, 3 e M,
5, 3, 1, 6).
La varietà contraddistingue la víś: «Rende la víś con meno vigore dello kṣatrá – diversa nella parola, con
pensieri differenti» (ŚBM, 8, 7, 2, 3).
«Perciò, gli armenti – pur essendo gli stessi – sono con differenti colori» (PB, 10, 11, 1). Colui il quale può essere con il
desiderio di cibo e di un clan (o di un villaggio), può immolare un armento «con molti colori» ai Víśve-Devā
(TS, 2, 1, 6, 4 e 5). I Víśve-Devā
stessi sono le víśaḥ e così – per il rājanyá – sono associati ad un’abbondanza di
colori (ŚBM, 5, 5, 1, 10).
Anche JB, 2, 184.
12 «Allora, in quanto
mendica, ridotto se stesso all’erranza (e) divenuto senza pudore, ciò che è
questo suo piede in Morte, lo riscatta (párikrīṇāti) così» (ŚBM, 11, 3, 3, 5). Anche GB, 1, 2, 3. La via della rinuncia. «Perciò, inoltre,
una donna va verso un uomo che sta in una (dimora) ben approntata» (ŚBM, 3, 2, 1, 22). – Anche ŚBK, 4, 6, 2, 6. «Suparṇī
lo (= il Sóma) diede ai Devā. Con questo (Sóma), riscattò se stessa da Morte.
(...) Infatti, l’uomo (manúṣyo; M, púruṣo) – nascendo – nasce (come) un debito verso Morte, (attraverso se
stesso, ātmánā,
M, 3, 6, 2, 16). In quanto sacrifica, egli riscatta se
stesso da Morte». La via del
sacrificio. «Loro (= i Devā) sacrificavano, con il Sóma. Loro offrivano un’oblazione di Sóma. Con questa
(oblazione di Sóma), lo (= Morte) vincevano del tutto» (JB, 1, 13).
13 Anche, ad
esempio, ŚBM, 3, 8, 4, 18. «Perciò,
queste geniture sono generate (prájāyante)
ancora, in modo ripetuto». – «Poiché questo
mondo è come avvinto a Morte» (TS, 1, 5, 9,
4).
2.2
1
«Infatti, afferrati, attraverso i respiri, le geniture,
gli armenti rimangono vicini (o servono)» (JB, 2, 301). –
Oppure: davanti, all’indietro. Poiché le teste degli armenti sono poste «davanti
(purástāt), la faccia all’indietro (pratīca)» (ŚBM, 7, 5, 2, 4).
2 «Loro – trovato il cibo – non lo rispettavano. (...) Egli era afflitto. Egli
non era felice. (...) Loro andavano nel suo potere. (...) Inoltre, in quanto,
resele nel (suo) potere, (Prajāpati) era felice, è ciò che dell’āmahīyava è proprio
dell’āmahīyava» (JB, 1, 117 e 118). Prajāpati infine è felice, in
quanto le geniture rimangono con lui, per il śraíṣṭhya.
3 «Infatti, emesse le geniture, Prajāpati
le circondava con il cielo e con la terra» (ŚBM, 3, 8, 4, 17). «Emesse, (...) loro erano andate via (vyudāyaṁs) in diverse direzioni. Prajāpati le circondava con il cielo e con
la terra» (MS, 1, 10, 7). Anche
ŚBM, 6, 7, 4, 12. «Prajāpati – e
in procinto di generar(lo) e generato(lo) – circondava da entrambe le parti
questo tutto con il giorno e con la
notte». «Era preoccupato
dalla dispersione di queste (geniture) emesse. (...) Le (...) circondava
(pariṇyadadhāt) tutt’attorno con l’oceano. Loro non erano disperse. La ricchezza di colui il quale così conosca non
è dispersa» (JB, 1, 104).
4
Come
gli armenti: «E con
questo mondo e con quello (anena ... amunā) circondano gli armenti da entrambe
le parti, ottengono gli armenti. (...) Gli armenti – circondati da entrambe le
parti e con questi (due) mondi e con Índra (e) Agní – rimangono vicini (upatiṣṭhante, servono) a lui, a colui il quale così
conosca» (JB, 2, 300). – «Prajāpati
desiderava: “Posso emettere le geniture”. (...) Emesse, loro andavano via da lui. Le prendeva, con la presa (gráha)» (TB, 2, 2, 1, 1). Anche TS, 1, 5, 9, 7. «Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro entravano nel
giorno e nella notte. Li trovava, con i metri».
Anche AB, 3, 45.
5 «Infatti, colui
il quale mette insieme (con un pātra)
con un buco non è saziato (utpūryate).
Allora colui il quale mette insieme (con un pātra) senza un buco è saziato» (JB, 3, 218).
6 Le geniture sono gli armenti: «Emesse, loro erano lontane. Non tornavano vicine. Le (...) sottometteva
(upāgṛhṇāt). Loro passavano oltre. (...) Le (...) aveva trattenute.
(...) In quanto, ottenute, le riprendeva
(ayacchad), così è l’aptoryāmá»
(GB, 2, 5, 9). «In quanto, ottenuti, dava
(i piccoli armenti) a se stesso, perciò è l’aptoryāmá» (JB, 2, 110).
7 Lett. andava
accerchiandoli. Anche JB, 2, 111. «Prajāpati è questo paryūḍhaḥ da lontano; per rinchiudere (guptyai) gli armenti; per
non disperdere gli armenti. La ricchezza di
colui il quale così conosca non è dispersa».
– Oppure, possono sfuggire alle maglie
della rete. Anche ŚBM, 5, 1, 5, 13. «Quanto
un tiro di freccia, tanto Prajāpati è largo. Allora, quanto diciassette
tiri di freccia, tanto Prajāpati è lungo».
8 Anche JB, 3, 114. «Infatti, inoltre, quando l’uomo trova gli armenti, allora egli pone
attorno un
goṣṭhá, per rinchiuder(li)». Anche PB, 13, 4, 13. – Il
passo può essere tradotto: «Il goṣṭhá è per
fermare (dhṛtyai) gli armenti. Gli armenti sono fermi in questo (goṣṭhá). Colui
il quale così conosca diviene provvisto degli armenti» (JB, 3, 153).
9 «Infatti, gli
armenti – guardato negli occhi di Agní emesso – correvano via. Prajāpati emetteva il
vāra-vantīya. Li tratteneva (avārayata). (...) Infatti, emesso il vāra-vantīya,
Prajāpati riusciva nel desiderio che desiderava (yáṃ kāmam ákāmayata tám ārdhnot)» (MS, 1, 6, 7). Anche JB, 2, 413. «Prajāpati emetteva
gli armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Strappato un ramo di varaṇá, li tratteneva, con il vāra-vantīya». Anche PB, 5, 3, 9 e 10. «Agní Vaiśvānará giungeva ad ardere questo (tutto). I Devā erano spaventati da lui. Lo trattenevano, con un
ramo di varaṇá. (...) Perciò, il varaṇá è
salutare. Poiché, con esso, i Devā salvavano se
stessi».
2.3
1 Gli armenti (e gli uomini). «Questa è la regola».
2 Il prastará è un fascio di steli o di fieno. L’adhvaryú
è colui il quale recita le formule rituali.
3 L’odaná è un po’
di riso cotto con il latte. Anche GB, 2, 1, 7. «Egli pensava: “Ho escluso me stesso”. Egli vedeva l’ odaná – non spartito. Lo sceglieva (come) parte per se stesso (ātmane ...
niravapat)». L’odaná è il
sacrificio. – Con il cibo e con la luce: «Prajāpati emetteva le geniture. Emesse,
loro andavano lontane da lui. Per loro, (Prajāpati) sollevava una luce. Le geniture – vedendo una luce – tornavano insieme verso di lui» (TB, 1, 1, 5, 4). Anche MS, 1, 6, 6. Così, PB,
10, 2, 1. «Prajāpati emetteva le geniture. Egli languiva. Per lui,
Parola sollevava una luce. Egli diceva: “Chi ha sollevato questa luce per me?”.
“La tua stessa Parola”, diceva (ella)».
4 «Egli nell’ultimo stotrá (...) si rivolgeva a (tornava verso) i Devā» (PB, 18, 1, 4). L’upahávya nel PB: «Con il desiderio di un villaggio
(o di un clan), può sacrificare. (...) Pone la moltitudine sotto il suo potere (asmā ... anuniyunakty). La moltitudine diviene colei la quale non va via da
lui. Con il desiderio di un armento,
può sacrificare. (...) Ottiene gli
armenti» (PB, 18, 1, 13-16). – «I Devā
furono in un certo senso più accondiscendenti con il
volere (di Prajāpati); gli Ásurā, meno accondiscendenti con il (suo) volere, in un certo senso. Prajāpati
desiderava: “I Devā possono prosperare. Gli Ásurā
possono perire”. (...) In questo (sacrificio), (Prajāpati) si richiamava vicino i Devā. Allora escludeva gli Ásurā, con una lunga canna. In questo modo, infatti, i Devā prosperavano.
Gli Ásurā perivano» (JB, 2, 150).
5
«Le desiderava: “Possono tornare vicine a me”. (...)
Egli immolava se stesso, per il sacrificio. Loro tornavano vicine a lui» (KS, 29, 9).
6 Con il cibo, l’uomo afferra
gli armenti – e gli uomini, resi come gli armenti (ŚBM, 4, 6, 5, 4).
Per Índra, per lo kṣatrá
sulle moltitudini, Bṛ́has-páti (come puróhita) arriva per primo al cibo;
poiché Bṛ́has-páti è il brāhmaṇá sugli armenti – e gli armenti per
primi sono «afferrati», con il cibo. – «Infatti, questi sono i sajātāḥ: i parenti, i
figli, le mogli, gli armenti. Porta
in contatto se stesso con questi. Con questi, prospera. (...) Infatti, pone
questi sajātāḥ
in lui. Li rende coloro i quali non vanno via da lui» (MS, 2, 3, 2). – Il mito
suggerisce qui un accentramento in Índra. Anche JB, 3, 349. «Egli (Prajāpati) rifletteva: “In quale modo io posso appropriarmi di queste loro
eccellenze?”».
Anche JB, 3, 364.
7 Prajāpati dà la
pioggia alle geniture e così le sostenta: «I
sostentati – completamente soddisfatti (con
il cibo) – lo esaltano, colui il quale così conosca – completamente soddisfatto (con il cibo)» (JB, 1, 117). Prajāpati fa generare
(prosperare) per lui i due mondi: «Quando il (cielo) lassù piove, allora
questa (terra) genera. Infatti, inoltre, quando il marito versa lo sperma nella
moglie, allora ella genera» (JB, 1, 330).
8 Anche PB, 10, 3,
13. «Perciò, (gli armenti) si
avvicinano, raggiunti (siddhā) con la parola,
richiamati con la parola (con la voce). Perciò, inoltre, conoscono il (loro)
nome». «Perciò, richiamati, con la parola, gli armenti muovono verso; raggiunti,
con la parola, tornano indietro» (KS, 34, 7).
9 Lo Yajñá è il sacrificio:
un armento (gli armenti hanno e dunque danno) e un cibo: «Infatti, il sacrificio andava via dai
Devā. “Io non diverrò il vostro cibo”. “No”, dicevano i Devā, “Diverrai il
nostro cibo”» (AB, 1, 18). Anche
AB, 3, 45. «I Devā dicevano:
“Infatti, il sacrificio – il nostro cibo – è andato via. Che ricerchiamo questo
sacrificio – il cibo!”. (...) Ottenuto, gli avevano detto: “Che (tu) rimanga (tiṣṭhasva) per il nostro cibo!”». «Infatti,
gli armenti non rimanevano (nātiṣṭhanta)
con i Devā, per il cibo, per l’immolazione. Andati via, loro rimanevano,
replicando: “Non ci immolerete. Non noi!”»
(AB, 2, 3).
10
Prajāpati
dà il migliaio di vacche ai Devā: «(Con la melodia) con il finale ī, (i Devā) (lo)
divoravano (āvayan). (Con la melodia) con il
triplice finale, e lo inducevano a generare e per lui facevano l’ákṣiti» (JB, 2, 254). I
Devā sostituiscono Prajāpati: «Andate via, loro (le
vacche) si propagarono in grande. I Devā furono preoccupati dalla loro dispersione. Guidate fuori, con l’utsedhá, riprese, con il niṣédha, (i Devā) se le posero in se stessi» (JB, 2, 90).
11 «Prajāpati
emetteva il sacrificio. Lo dava ai Devā. Dato il
sacrificio, egli si pensava svuotato. Egli rifletteva: “In quale modo io posso
richiamare ancora vicino questo sacrificio?”. (...) Così, se lo richiamava
ancora vicino» (JB, 2, 149).
12 Oppure, “Che (tu) cerchi di ottenerli, per me!”.
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