La consacrazione
(dīkṣā).
Introduzione.
Che cosa accade, durante la dīkṣā?
Il dīkṣitá (consacrato) siede al disopra della pelle di un’antilope nera (kṛṣṇājiná). Infatti, i peli bianchi e neri
della pelle di un’antilope nera sono l’inno e la melodia e così questo tutto.
ŚBM, 4, 6, 7, 5. E gli inni e le melodie sono Parola. Le formule sono Mente. Ovunque
era questa Parola, tutto era fatto, tutto era conosciuto. Allora, ovunque era
Mente, niente era fatto, in un certo senso, niente era conosciuto.
I
peli bianchi e neri della pelle di un’antilope nera sono il giorno e la notte.
TS, 6, 1, 3, 1 e 2. Il bianco della pelle di un’antilope nera è
l’aspetto dell’inno. Il nero, della melodia. (...) Il bianco della pelle di
un’antilope nera è l’aspetto del giorno. Il nero, della notte.
Il
dīkṣitá è al disopra della pelle di un’antilope
nera e così è di là dai peli bianchi e
neri: dall’inno e dalla melodia, dal
giorno e dalla notte.
PB, 4, 1, 4. Prajāpati era unico qui. Egli desiderava:
“Posso essere molteplice. Posso generare”. (...) Così, generava il giorno e la
notte.
Così, il dīkṣitá è di là dal mondo di Prajāpati- Mṛtyú:
PB, 21, 2, 1. Prajāpati emetteva le geniture. Emesse, loro
andavano lontane da lui, spaventate: “Ci divorerà”. Egli diceva: “Che torniate vicine a me! Infatti, vi divorerò, in modo tale che – per
quanto divorate – più numerose
[abbondanti] genererete”. (...) Con
queste melodie, Morte qui e divora le geniture e (le) induce a generare.
2.
Il
giorno e la notte – Agní
e Sóma.
Per i mortali, sono soltanto il giorno e
la notte. Così, Morte diminuisce la vita dei mortali e raggiunge la fine della
loro vita.
ŚBM, 10, 4, 3, 1 e 2. Poiché, con il giorno e con la
notte, questo (Saṃvatsará) diminuisce la vita dei mortali (mártyānām).
Allora muoiono. (...) Poiché, con il giorno e con la notte, questo (Saṃvatsará)
raggiunge la fine della vita dei mortali. Allora muoiono.
ŚBM,
10, 4, 3, 3. I Devā temettero Mṛtyú-Ántaka, Prajāpati-Saṃvatsará: “In quanto,
infatti, con il giorno e con la notte, questo (Mṛtyú, Prajāpati) può raggiungere la fine della nostra
vita”.
Il
dīkṣitá pensa di sacrificare un armento
e così di riscattare se stesso.
KB,
10, 5. Agní e Sóma sono il giorno e la notte. (...) Colui il quale immola un
armento, così conoscendo, (costui) è sottratto (aty ... mucyate) al giorno e
alla notte, attraverso il sacrificio: loro (Agní e Sóma) non ottengono costui.
«Allora il giorno (e)
la notte sono queste due braccia spalancate di Morte (mṛtyor ... vrājabāhū). È come se fosse sottratto in
mezzo a due braccia spalancate in procinto di afferrar(lo)...» (KB, 2, 9).
ŚBK, 4, 3, 4, 14. Agní e Sóma si pongono colui il quale si consacra nelle fauci. (...) Poiché,
infatti, costui diviene il cibo sacrificale di entrambi. Perciò, Agní e
Sóma se lo pongono nelle fauci. Con questo armento (ad Agní e a Sóma), costui1 riscatta (níṣkrīṇāti) se stesso (come) armento (o vittima).
Per il giorno e per
la notte, il dīkṣitá è solo un armento.
3.
Il brāhmaṇá e lo
kṣatrá.
TB, 3, 9, 14, 3. Infatti, il giorno è la forma del brāhmaṇá. La notte, dello kṣatrá. Così, il
suo rāṣṭrá
diviene circondato da entrambe le parti, e con il brāhmaṇá e con lo kṣatrá.
Il brāhmaṇá e lo kṣatrá mostrano se stessi:
ŚBK, 4, 9, 1, 14. Infatti, inoltre, le víśaḥ (le
moltitudini, i popoli) sono il cibo. Rende il cibo davanti (di fronte, purástād) allo kṣatrá2. Perciò, lo kṣatríya2 è un divorante. In quanto il cibo (= le víśaḥ) diviene situato davanti (a lui), situato nella bocca di lui
(asya, dello kṣatrá).
ŚBK, 4, 9, 1, 10. Perciò, il brāhmaṇá2
(è colui il quale) ha più potere sugli armenti. In quanto gli armenti
divengono situati davanti (a lui), situati nella bocca di lui (asya, del brāhmaṇá).
Per
gli armenti e per le moltitudini, sono soltanto
il brāhmaṇá e lo kṣatrá. Infatti, gli armenti e le
moltitudini sono situati davanti al
brāhmaṇá e allo kṣatrá, e così sono il
cibo, per il brāhmaṇá e per lo kṣatrá.
ŚBK, 4, 9, 1, 2.
Egli (Prajāpati) rifletté: “Io (mi) sono esaurito. Inoltre, il desiderio – per il quale ho emesso le geniture –
non è stato soddisfatto per me: loro (le geniture) sono divenute lontane (da
me) – non rimangono (tiṣṭhante) con
me, per la śrī, per il cibo!”.
Gli
armenti e le moltitudini rimangono, per
il brāhmaṇá e per lo kṣatrá; le geniture rimangono,
per Prajāpati, e sono il cibo, per lui. Prajāpati divora il cibo3.
KB, 12, 8. Così,
infatti, e con il brāhmaṇá e con lo kṣatrá, e con lo kṣatrá e con il brāhmaṇá, Prajāpati giungeva ad afferrare (o a circondare) da entrambe le
parti, ad ottenere il cibo (’nnādyaṃ parigṛhṇāno ’varundhāna ait).
Così, il brāhmaṇá, lo kṣatrá sono per Prajāpati – solo per il cibo di Prajāpati. Così, lo kṣatrá
e la moltitudine sono soltanto le ossa e le carni: il cibo.
ŚBM, 9, 3, 1, 15. Poiché lo kṣatrá è sollevato
(tíṣṭhati), in un certo senso. Gli altri sono seduti. Poiché la moltitudine è
seduta, in un certo senso.
ŚBM, 9, 2, 3, 46. Le ossa sono sollevate (tíṣṭhanti),
in un certo senso. (...) Infatti, le carni sono sedute, in un certo senso.
JB,
1, 312. Loro sono il giorno (e) la notte. Infatti, Mitrá è il giorno (e) Váruṇa
è la notte. Il giorno e la notte ottengono tutti i mondi da questa parte (al
disotto) del Sole. Ma loro inoltre non ottengono il mondo di colui il quale
così conosca.
4.
Per i mortali, sono soltanto le
ossa e le carni – un corpo, mortale.
TS,
5, 7, 1, 2 e 3. L’íṣṭakā4 è
la forma del giorno. Il púrīṣa5, della
notte.
L’íṣṭakā e il púrīṣa sono il giorno e la notte.
L’íṣṭakā e il púrīṣa sono l’osso e la carne.
ŚBM, 8, 7, 3, 1. Infatti, il
púrīṣa è la carne. (...) Le íṣṭakāḥ
sono l’osso.
L’osso6
e la carne sono il corpo – mortale –
di Prajāpati, l’Agní edificato (ŚBM, 10, 1, 3, 5).
ŚBM, 10, 1, 4, 1. All’inizio, Prajāpati fu
entrambi: e mortale e amṛ́ta. I suoi prāṇā (sensi) furono amṛ́tā. Il corpo,
mortale (śárīraṃ mártyaṁ).
Prajāpati è mortale e così teme Morte. Prajāpati è il cibo, per Morte: «Offerto,
Prajāpati e generava e salvava se stesso da Agní, Morte in procinto di
divorar(lo)» (ŚBM, 2, 2, 4, 7).
ŚBM, 10, 1, 3, 2. In quanto (una parte) di lui (di Prajāpati) era mortale (mártyam), così (Prajāpati) temeva Morte. Spaventato, egli penetrava questa
(terra), divenuto duplice (dvayáṃ): e l’argilla e le acque.
ŚBM, 10, 1,
1, 11. Allora ciò che è mortale (mártyaṃ), (...) divenuto
duplice (dvayáṃ), va in (ápyeti) questa (terra): e l’urina e le feci.
Il corpo – mortale
– è soltanto le ossa e le carni: «Lo yájamāna è duplice, in questo mondo: e l’osso e la
carne» (TB, 1, 5, 9, 7).
ṢB,
2, 1, 1. Prajāpati desiderava: “Posso
essere molteplice. Posso generare”. Egli cantava l’inno retasyā, avvolto con
una melodia. In quanto (yad) potrebbe cantare (agāsyad) un inno, senza una
melodia7, genererebbe (ajaniṣyata) l’osso, senza la carne. In quanto
una melodia, senza un inno, genererebbe la carne, senza l’osso. Canta l’inno, avvolto
con una melodia.
Così,
l’inno e la melodia sono le ossa e le carni. Le geniture, gli armenti sono il púrīṣa,
il púrīṣa è il cibo
(ŚBM, 8, 5, 4, 4), il púrīṣa è la carne (ŚBM, 8, 7, 3, 1).
TB,
3, 2, 8, 9. Il púrīṣa è la genitura, gli armenti. In
quanto così ricopre, rende completo lo yájamāna, con
la genitura, con gli armenti.
Prajāpati
e le geniture, gli armenti sono il cibo,
per Morte (ŚBM, 10, 6, 5, 5).
ŚBM, 8, 7, 3, 7. Il púrīṣa è una parte dell’Agní (edificato); una parte, è l’íṣṭakā8.
«Questo Agní (edificato) è e le geniture e Prajāpati»
(ŚBM, 9, 1, 2, 42).
ŚBM, 10, 4, 3, 10.
Allora coloro i quali così non conoscono (l’Agní edificato), i quali non fanno
(per se stessi) quest’opera (= l’Agní edificato), (costoro), morti, divengono
(sámbhavanti) ancora. Costoro divengono ancora e ancora il cibo di lui (di
Morte).
Infatti, l’Agní edificato è soltanto l’osso e la carne – un corpo, mortale – e così è il cibo, per Morte (ŚBM, 10, 4, 1, 4). Perciò, colui il quale così
conosca è di
là dal púrīṣa e dall’íṣṭakā
– così come è di dalla melodia e dall’inno – ed è Agní
stesso: «Colui il quale edifica Agní (per se stesso) diviene (bhavati) questa
divinità: Agní. Inoltre, Agní è l’amṛ́ta» (ŚBM, 10, 1, 4,
14). «Egli diviene
amṛ́ta. Poiché Morte diviene il suo ātmán» (ŚBM, 10, 5, 2,
23). «Morte non lo
ottiene: Morte diviene il suo ātmán» (ŚBM, 10, 6, 5, 8).
5.
Conclusioni.
Perciò, il dīkṣitá siede al disopra della pelle di
un’antilope nera – di là dai peli bianchi e neri e così dall’osso e dalla
carne, dal giorno e dalla notte, dal brāhmaṇá e dallo kṣatrá. Da Prajāpati e
dalle geniture – il cibo, per Morte.
JB, 2, 62. Quel (Sole) che arde è questo dīkṣitá. Egli
è consacrato per (abhi dīkṣitaḥ) l’indriyá, il jyaíṣṭhya, il śraíṣṭhya. (...) La forma
della pelle di un’antilope nera è il giorno e la notte. Il giorno è la forma
del bianco (della pelle). La notte, del nero (della pelle). (...) Egli (il
púruṣa nel disco del Sole) è il prāṇá. Egli è Índra. Egli è Prajāpati. Egli è
il dīkṣitá.
JB, 2, 63. Colui il quale è questo púruṣa nell’occhio è questo dīkṣitá. (...)
In quanto la forma della pelle di un’antilope nera è e il bianco e
il nero (dell’occhio). Il bianco (dell’occhio) è la forma del bianco (della
pelle). Il nero (dell’occhio), del nero (della pelle). (...) Egli (questo
púruṣa nell’occhio) è il prāṇá. Egli è Índra. Egli è Prajāpati. Egli è il
dīkṣitá.
Di là dai peli bianchi e neri, il dīkṣitá non è il cibo, per Morte. Di là dal giorno e dalla notte, il dīkṣitá
è Morte stesso: Morte è di là da entrambi.
ŚBK, 3, 1, 9, 3. Come, conducendo con un carro (ráthena9),
può rivolgere lo
sguardo alle
ruote del carro che si muovono, così egli rivolge lo sguardo al giorno e alla notte che si succedono.
śreṣṭhaṃ
dhiyaṃ kṣiyatīti
GB,
1, 3, 19.
Soltanto
gli armenti, le moltitudini sono per il
brāhmaṇá, per lo kṣatrá; di là dal brāhmaṇá, dallo kṣatrá, il dīkṣitá non è solo per il brāhmaṇá, per lo kṣatrá. Così, inoltre, il brāhmaṇá, lo kṣatrá sono
entrambi per lui; insieme con gli armenti, le moltitudini: il
cibo,
per lui (!).
KB,
12, 8. Allo stesso modo, così, e con il brāhmaṇá e
con lo kṣatrá, e con lo kṣatrá e con il brāhmaṇá, lo yájamāna giunge
ad afferrare (o a circondare) da entrambe le parti, ad ottenere il cibo.
Colui
il quale il quale si edifica Agní è così di là dalla carne e dall’osso, dal púrīṣa e dall’íṣṭakā10, così come è di là
dalla melodia e dall’inno: non è solo il
cibo, per Morte (ŚBM, 10, 4, 3, 10), e così è Morte stesso (ŚBM, 10, 1, 4, 14)
oppure ottiene Morte (ŚBM, 10, 4, 3, 11). Così, questo
tutto è il cibo, per costui. Infatti,
questo tutto è il cibo, per Morte.
ŚBM,
10, 1, 4, 13. Colui il quale edifica Agní (per se stesso) diviene (bhavati)
questa forma di Agní (= l’Agní deposto,
di là dall’Agní edificato).
“Questo tutto è il cibo di Agní. ‘Questo tutto è il mio cibo11’, può
conoscere colui il quale così conosca (evaṃvíd)”.
Di là da entrambi (e non più per Morte), il dīkṣitá può
essere solo Morte stesso (per lui,
ormai, è tutto).
Note.
1 Il dīkṣitá. Anche
ŚBM, 11, 7, 1, 3. «In quanto
sacrifica, con il paśubandhá, egli riscatta
se stesso: un maschio, con un maschio; poiché l’armento è un maschio (e) lo
yájamāna è un maschio».
2 Il brāhmaṇá e lo kṣatrá (o kṣatríya) sono il potere sacerdotale e il potere sovrano: i due
poteri.
3
Il cibo, ovvero gli armenti (ŚBM, 7, 5, 2, 6 e 7) e le geniture (ŚBK, 4, 9, 1, 1 e 2).
4
L’íṣṭakā è il mattone.
5
Il
púrīṣa è il terriccio.
6
Le ossa sono amṛ́tā (ŚBM, 10, 1, 3, 5).
7
Leggo asāmam (senza una melodia), non asāmnīm (senza due melodie).
8
Anche
KS, 20, 1. «L’íṣṭakā è l’osso; il púrīṣa, la carne. In
quanto ricopre l’íṣṭakā, con il púrīṣa, perciò l’osso è coperto, con la carne». L’íṣṭakā e il púrīṣa (ŚBM, 10,
4, 1, 7) sono l’Agní edificato (ŚBM, 8, 7, 3, 7), il cibo per l’Agní deposto (ŚBM, 10, 4, 1, 4). Le oblazioni e i pezzi
di legno sono il cibo per l’Agní deposto (ŚBM, 9, 2, 2, 1; M, 9, 2, 3, 36) e
sono le carni e le ossa (ŚBM, 9, 2, 3, 46); Agní «beve» le oblazioni e «mangia» i pezzi di
legno (ŚBM, 10, 5, 4, 12). L’Agní edificato si
risolve nell’Agní deposto (ŚBM, 10, 4, 1, 6-8), nella formula (ŚBM,
10, 1, 1, 6; M, 10, 5, 2, 22; M, 10, 5, 4, 18) e così in Mente (ŚBM, 4, 6, 7, 5) come
Parola (ŚBM,
10, 1, 1, 9; M, 10, 5, 2, 8).
9 Il carro è il Sole: «Come, essendo stabilito nel piano di un carro
(rathopasthe tiṣṭhan), può rivolgere lo sguardo alle ruote, così, essendo stabilito nel
mondo del Sole (ādityaloke tiṣṭhan), rivolge lo
sguardo al giorno e alla notte» (JB, 3, 357). Di là dai divoranti e dai divorati: «Sollevato al
disopra di loro, quel Sole arde»
(JB, 1, 252).
10 Il púrīṣa e l’íṣṭakā sono così Índra e Agní – lo kṣatrá e il brāhmaṇá (ŚBM, 10, 4, 1, 7-9).
11 Anche ŚBM, 10, 6,
5, 5. «Colui il quale così conosca (...)
diviene il divorante di tutto (e) tutto diviene il suo cibo». Anche ŚBM, 9, 2, 2, 1; M, 9, 2, 3, 46. Il dīkṣitá divora il
cibo come il púruṣa nel Sole e nell’occhio destro (ŚBM, 10, 5, 2, 18 e 19; JB, 2, 62 e 63). Così, il púruṣa è una testa
(ŚBM, 10, 6, 1, 11; M, 10, 3, 4, 5; M, 9, 3, 1, 4-6).
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