«Come degli armenti»:
un
esempio di sarcasmo brāhmaṇico.
Notava Armand Minard, nelle sue ricerche
sullo Śatapatha-Brāhmaṇa: «Umorismo, ironia, sarcasmo sono rari [nello Śatapatha-Brāhmaṇa] e
d’altronde ardui da rilevare» (1). Tuttavia, il sarcasmo potrebbe pervadere i trattati in prosa del
periodo vedico, incominciando dai passi sul ‘carattere’ della divinità suprema:
Prajāpati.
1. La divinità.
Prajāpati emette le geniture (tutte le
creature, prajāḥ), solo per la propria prosperità e per il proprio cibo:
ŚBK, 4, 9, 1, 1 e 2. Infatti, Prajāpati –
emesse le geniture – si pensò come svuotato. Inoltre, le geniture divennero
lontane da lui – non rimanevano con lui,
per la prosperità, per il cibo (2). Egli (Prajāpati) rifletté: “Io (mi) sono
esaurito. Inoltre, il desiderio – per il
quale ho emesso le geniture – non è stato soddisfatto (raggiunto) per me:
loro (le geniture, M, 3, 9, 1, 2) sono divenute lontane (da me) – non rimangono
(tiṣṭhante)
con me, per la prosperità, per il cibo!”. “In quale modo e posso
accrescere (o riempire) ancora me stesso e le geniture possono tornare insieme vicine a me – possono rimanere con me, per la prosperità, per il cibo?”.
Le geniture sono solo per Prajāpati – non
per se stesse. Prajāpati emette gli armenti: sono solo il cibo:
ŚBM, 7, 5, 2, 6 e 7. All’inizio, Prajāpati era qui, unico. Egli
desiderava: “Posso emettere il cibo. Posso generare”. Egli produceva gli
armenti (paśūn) dai prāṇā (sensi). (...) Emesso il cibo (= gli armenti), se
(lo) poneva – da davanti a dietro – in se stesso. (*)
(*) Prajāpati si afferma sulle geniture e sugli armenti: è un tema ricorrente
anzitutto nel PB o nello JB.
Quando emette le geniture e gli armenti,
Prajāpati ‘desidera’ solo il proprio cibo. Così, le geniture sono come gli armenti. Infatti, gli armenti
sono solo il cibo.
TB, 2, 2, 10, 6 e 7. Divenuto Prajāpati, egli (Índra) divorava
(o consumava, āvayat) le geniture. Loro non rimanevano con
lui, per il cibo. (...) Divenuto con un
volto (con una bocca) in ogni
direzione, (Índra) le divorava. In questo modo, infatti, le geniture
rimanevano (átiṣṭhanta)
con lui, per il cibo.
Una volta esaminato il ‘carattere’ della
divinità, i testi definiscono quello dei ‘pochi’ – sui ‘molti’, nell’India
vedica. Prajāpati stesso
– divorante delle geniture – rende
‘divoranti’ il brāhmaṇá e lo kṣatrá:
ŚBK, 4, 9,
1, 10. Infatti, Bṛ́has-páti è il brahmán. Pūṣán è gli armenti. Perciò, il brāhmaṇá (è colui il quale) ha più potere sugli armenti. In
quanto gli
armenti divengono situati davanti
(come cibo),
situati nella
bocca di lui (asya, del brāhmaṇá).
ŚBK, 4, 9,
1, 14. Índra è lo kṣatrá. I Víśve-Devā sono le moltitudini. Infatti, le víśaḥ (le moltitudini, i popoli) sono il cibo. Rende il cibo davanti (di
fronte, purástād) allo kṣatrá. Perciò, lo kṣatríya è un divorante. In quanto il cibo (= le víśaḥ) diviene
situato davanti (a lui), situato nella bocca di lui (asya, dello kṣatrá). (*)
(*) Un confronto
con lo ŚBM: «Índra è lo kṣatrá.
I Víśve-Devā sono le víśaḥ. Rende il cibo (= le víśaḥ)
davanti (di fronte, purástāt) a lui (allo kṣatrá)» (ŚBM, 3, 9, 1, 16). Ogni volta che sono insieme con gli
armenti, nello ŚBK, i popoli o gli
uomini sono considerati come gli armenti.
Così, nello ŚBK, le víśaḥ sono come gli armenti. Prajāpati –
divorante – rende l’uomo il ‘divorante’
degli armenti:
ŚBM, 7, 5, 2, 6. In quanto (Prajāpati)
costituiva l’uomo dalla mente,
perciò dicono: “L’uomo è il primo,
il più vigoroso tra gli armenti”. (...) In quanto (Prajāpati)
costituiva l’uomo dalla mente,
perciò dicono: “L’uomo è tutti gli armenti”. Poiché tutti questi (armenti)
divengono dell’uomo (*).
(*) Anche ŚBM, 7, 5, 2, 14. «Pone il púruṣa (l’uomo): il divorante degli armenti – dal centro.
Perciò, il púruṣa è il divorante degli armenti – dal centro».
Sarcasmo: come l’uomo – correlato con la mente – è ‘superiore’ agli armenti,
così il brāhmaṇá e lo kṣatrá sono
‘superiori’. Prajāpati emette gli uomini – e così instaura una
gerarchia:
JB, 1, 68 e 69. Prajāpati era qui all’inizio. (...) Egli desiderava: “Posso essere
molteplice. Posso generare. Posso raggiungere un’abbondanza”. Egli dalla sommità, dalla testa emetteva (...) la
divinità Agní, l’uomo brāhmaṇá, l’armento capro. (...) Perciò, inoltre,
(il brāhmaṇá) è il capo delle geniture. Poiché (Prajāpati) lo emetteva dalla testa (mukhād). Egli desiderava:
“Posso generare”. Egli dalle braccia, dal petto emetteva (...) la divinità Índra, l’uomo
rājanyá, l’armento cavallo. (...)
Perciò, inoltre, (il rājanyá) è vigoroso (vīryaṃ karoti) con le braccia. Poiché (Prajāpati) lo emetteva dalle braccia, dal petto – dal vigore. Egli desiderava:
“Posso generare”. Egli dal ventre, dal centro emetteva (...) la divinità Víśve-Devā (*), l’uomo vaíśya (**), l’armento vacca. (...) Perciò, inoltre, (il vaíśya) è prolifico.
Poiché (Prajāpati) lo emetteva dal ventre – dal membro.
(*) «Infatti,
i Víśve-Devā sono
un’abbondanza» (ŚBK, 7, 4, 2, 10).
(**) Il
vaíśya può essere
tradotto come «uomo del popolo».
Il vaíśya è solo il cibo per il brāhmaṇá e per il rājanyá: li sostenta:
PB, 6, 1, 10. Egli
(Prajāpati) dal centro, dal membro emetteva il Saptadaśá; era emesso in seguito (’nvasṛjyata) ad esso il
metro jágatī, la divinità Víśve-Devā, l’uomo vaíśya,
la stagione delle Piogge. Perciò, il vaíśya
– per quanto divorato – non diminuisce. Poiché è emesso dal membro. Perciò, inoltre, è
con un armento numeroso. Poiché i Víśve-Devā (sono la sua
divinità) (e) jágatī (è il suo metro).
Poiché le Piogge sono la sua stagione. Perciò, è il divorato (ādyo)
e del brāhmaṇá e
del rājanyá. Poiché è
emesso più in basso (di entrambi).
Così, Prajāpati stesso rende il vaíśya il ‘divorato’ del brāhmaṇá e del rājanyá. Inoltre, il vaíśya è generato e genera solo come cibo per il brāhmaṇá e per il rājanyá – al disopra del vaíśya. Il vaíśya è come gli armenti: «Perciò, gli
armenti – per quanto mangiati, cotti – non diminuiscono. Poiché li rende
stabiliti nella matrice (yónau)» (ŚBM, 7, 5, 2, 2).
Il
brāhmaṇá e il rājanyá sono come Prajāpati. Le geniture sono generate e generano, solo per sostentare Prajāpati: egli si aspetta che le geniture producano:
PB, 21, 2, 1. Prajāpati
emetteva le geniture. Emesse, loro andavano lontane da lui, spaventate: “Ci divorerà”. Egli diceva:
“Che torniate vicine a me! Infatti,
vi divorerò, in modo tale che – per quanto divorate – più numerose [abbondanti] genererete”.
A loro – gli avevano detto: “Prometti! (o Giura!)” – prometteva, (con la
melodia) con il finale ṛtá. (Con la melodia) con il finale ī, (Prajāpati) (le)
divorava (o consumava, āvayat). (Con la
melodia) con il triplice finale, (le) induceva
a generare (prājanayad). Con queste melodie, Mṛtyú (*) qui
e divora le geniture e (le) induce a generare (prajā atti ca pra ca janayati).
(**)
(*) «Egli (Mṛtyú) rifletteva: “Se ucciderò (ora) questo (Saṃvatsará), renderò esiguo il (mio) cibo!”» (ŚBM, 10, 6, 5, 5). «Emesse, loro (le geniture) non
generavano. Agní desiderava: “Io posso indurle a
generare”» (TB, 1, 6, 2, 1).
(**) Prajāpati assiste le geniture – come se fossero
degli armenti – solo per indurle a prosperare e a generare, e poi divorarle. Ad
esempio, PB, 8, 8, 14-17. «Prajāpati emetteva le geniture. Emesse, loro erano
affamate. Dava (...) loro il cibo. In questo modo, infatti, loro prosperavano (samaidhanta). (...) Loro dicevano: “Ci hai ben sostentate”. (...) Dava
loro la pioggia – il cibo».
Emesse da Prajāpati, le geniture possono generare, più abbondanti, solo come cibo per Prajāpati stesso. (Perciò, Prajāpati le emette). Le geniture sono come gli armenti. Infatti, gli armenti
generano solo come cibo per l’uomo. Prajāpati dà il migliaio di vacche ai Devā:
JB, 2, 254. (Il migliaio di vacche) – divorato – diveniva nascosto (tiro) ai Devā. Lo richiamavano. (Il migliaio di vacche) diceva: “Infatti, sono spaventato dalla diminuzione”. “No”,
dicevano (i Devā), “Infatti,
ti divoreremo, in modo tale che – per quanto mangiato, bevuto – non diminuirai
per noi”. A lui – “Infatti, che (voi) mi
promettiate!” – promettevano, (con la melodia) con il finale ṛtá. (Con la melodia) con il finale ī, (lo)
divoravano (o consumavano, āvayan). (Con la
melodia) con il triplice finale, e lo inducevano a generare e per lui facevano l’ákṣiti (l’inesauribilità).
Il divorante si aspetta che il ‘divorato’
generi; altrimenti, il cibo potrebbe essere esiguo. Nello JB, il ‘divorato’ –
non il divorante – è spaventato dalla diminuzione:
JB, 3, 256. Prajāpati emetteva il cibo. Spaventato dalla
diminuzione, (il cibo) andava via nelle direzioni. Egli (Prajāpati) desiderava:
“Posso ottenere il cibo”. Egli vedeva questa melodia. Con questa (melodia): “È
rimasto (’sthād), qui! È rimasto, qui!”,
(Prajāpati) otteneva il cibo, da tutte le direzioni. – Anche JB, 3, 230. Egli diceva:
“Questa fortuna (= gli armenti) è rimasta (asthād)
con me!”.
In quale modo, nell’India di 2.800 anni fa,
il vaíśya è il ‘divorato’ dello kṣatríya?
ŚBM, 1, 3,
2, 15. ...perciò,
queste víśaḥ portano
un tributo (balíṁ) allo kṣatríya.
...perciò, inoltre, (fino a che) è nel volere (váśe;
nell’autorità, īśāyāṃ, K, 2, 3, 1, 13) dello kṣatríya,
gli armenti sono a disposizione del vaíśya. ...perciò,
inoltre, quando lo kṣatríya desidera, allora
dice: “Ciò che è messo da parte lontano per te, vaíśya, che (tu) lo porti
per me!” (*).
(*) Così, Weber. La versione di Śāstrī
recita invece: «...perciò, inoltre, quando lo kṣatríya
desidera, allora dice al vaíśya: “Anche ciò che è
messo da parte lontano per te, che (tu) lo porti!”».
Sarcasmo: prima, lo kṣatríya
ottiene
il tributo dalle víśaḥ; poi, gli
armenti (paśávaḥ) sono del vaíśya, solo se vuole lo (o piace allo) kṣatríya;
infine, lo kṣatríya prende tutto ciò che il vaíśya pensa di mettere da parte ‘per se stesso’.
Perciò, il rāṣṭrá (il regno) è prospero, solo
quando il vaíśya genera (PB, 6, 1, 10).
ŚBM, 6, 1, 2, 25. “Infatti, lo
kṣatríya è il divorante (*). La víś (il popolo) è
il cibo. Dove (yátra) il cibo diviene più numeroso [abbondante] del divorante,
il rāṣṭrá diviene prospero, (il rāṣṭrá) si accresce (3)”. – Anche ŚBM, 8, 7, 2,
2.
(*) Anche MS, 4, 3, 8. «A
lui (allo kṣatrá), pone vicina
alla bocca, per il cibo, la víś con
alla testa il conducente di un carro».
Bṛ́has-páti – il brāhmaṇá con il ‘potere’ sugli armenti – è il puróhita
di
Índra – dello kṣatrá con il ‘potere’ sulle víśaḥ, sui Devā:
KS, 11, 3.
Infatti, i Devā non concordavano. Loro andavano via (divisi) in quattro. Agní, con i Vásavaḥ;
Sóma, con i Rudrāḥ; Índra, con i Marútaḥ;
Váruṇa, con gli Ādityāḥ. Bṛ́has-páti diceva loro: “Che (io) induca a sacrificare! Infatti, voi
concorderete”. “Che (io) induca a sacrificare, nella tua dimora!”, diceva a Índra, “Infatti, (i Devā) concorderanno, per il tuo śraíṣṭhya (per la tua supremazia)”. (...) Li induceva a sacrificare, nella dimora di Índra. In questo modo, infatti, loro concordavano. Loro concordavano, per il śraíṣṭhya di Índra. – Anche MS, 2, 2, 6.
Le geniture sono assoggettate a Prajāpati:
PB, 7, 5, 1 e 2. Emesse,
loro erano felici (amahīyanta).
(...) Emesse, loro erano andate via
da lui. Prendeva (...) i loro prāṇā (respiri).
Prese nei prāṇā, loro tornavano
ancora vicine a lui. Dava (...) loro ancora (indietro, punaḥ) i prāṇā. Loro
erano insorte (o si erano sollevate) contro di lui. Spezzava
(...) le loro collere. In questo modo, infatti, loro rimanevano (atiṣṭhanta) con lui, per il śraíṣṭhya
(per la [sua] supremazia).
PB, 7, 5, 3. I pari (samānāḥ) rimangono (tiṣṭhante) con colui il quale così
conosca, per il śraíṣṭhya.
Le geniture sono come gli armenti – sottomessi a Prajāpati:
PB, 7, 10, 13. Prajāpati emetteva gli
armenti. Emessi, loro erano andati via da lui. Si rivolgeva a loro, con questa
melodia. Loro rimanevano (atiṣṭhanta)
con lui. Loro divenivano sottomessi.
PB, 7, 10, 14. Con
il desiderio di armenti, può cantare (per se stesso), con questa (melodia).
Diviene provvisto degli armenti.
JB, 1, 148. Prajāpati emetteva gli
armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Egli desiderava: “Gli armenti
possono non andare via da me. Possono tornare verso di me”. (...) In questo
modo, infatti, gli armenti tornavano
verso di lui. In questo modo, divenivano coloro i quali non andavano via da
lui. Egli diceva: “Ho sottomesso
questi armenti!”. – Anche JB, 3, 218. Attraverso il śraíṣṭhya, li sopraffaceva (o dominava, upāgṛhṇāt).
Le geniture e gli armenti
lasciano Prajāpati, ma egli si afferma
su di loro. Perciò, Prajāpati insedia
Índra
(il rājā).
PB, 16, 4,
1. Prajāpati emetteva le geniture. Loro non rimanevano con lui, per il śraíṣṭhya. Egli – attratto (pravṛhya) il succo (rasaṃ) di queste direzioni e geniture, fatta (che ne ebbe) una ghirlanda –
se (la) metteva addosso. In questo modo, le geniture rimanevano (atiṣṭhanta) con lui,
per il śraíṣṭhya.
PB, 16, 4,
2. I
pari (samānāḥ) rimangono (tiṣṭhante) con colui il quale così conosca, per il śraíṣṭhya.
PB, 16, 4,
3. Egli
(Prajāpati) desiderava: “Índra può essere il migliore (śreṣṭhaḥ) nella mia
genitura”. Metteva la ghirlanda addosso a lui. In questo modo, le
geniture rimanevano (atiṣṭhanta) con Índra, per il śraíṣṭhya
– vedendo (in Índra) l’ornamento che vedevano nel padre.
Sylvain Lévi commentava: «La sua [di Prajāpati] sovranità, contestata, non s’impone
se non attraverso la manifestazione della sua potenza» (La doctrine du sacrifice dans les Brāhmaṇas, Paris: 1898, pagg. 25 e 26). La ghirlanda addosso a Prajāpati
rappresenta il suo affermarsi sulle
geniture. La ghirlanda è trasferita a Índra – insediato da Prajāpati stesso. Prajāpati
cerca il rispetto nelle geniture:
JB, 2, 100. Prajāpati emetteva le
geniture. Emesse, loro non lo
rispettavano. Egli desiderava: “Posso raggiungere il rispetto in queste
geniture”. (...) In questo modo, infatti, loro lo rispettavano. Infatti,
inoltre, i Devā non rispettavano Índra.
Egli andava da Prajāpati: “Infatti, questi Devā non mi rispettano”. Gli dava
(vyadadhāt) questo sacrificio (per) il rispetto. (...) In questo modo, infatti, i Devā lo rispettavano. – Anche JB, 1, 91.
Sarcasmo: le geniture e i Devā rispettano
così soltanto i loro divoranti: Prajāpati e Índra. Il brāhmaṇá e lo kṣatrá sono da Prajāpati – e per Prajāpati stesso:
KB,
12, 8. Così, infatti, e con il brāhmaṇá e con lo kṣatrá, e con lo kṣatrá e con
il brāhmaṇá, Prajāpati giungeva ad afferrare (o a circondare) da entrambe le
parti, ad ottenere il cibo.
Infatti,
in numerosi miti, Prajāpati trattiene o afferra gli
armenti:
JB, 1, 172. Prajāpati emetteva gli
armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Li tratteneva (avārayata), con il
vāra-vantīya (*). (...) In quanto il vāra-vantīya diviene la melodia dell’agní-ṣṭomá (**), (è) per la presenza
degli armenti, per il non andare via degli armenti. – Anche JB, 3, 153 e 2, 110.
(*) Il vāra-vantīya è una melodia rituale.
(**) L’agní-ṣṭomá
è un rituale.
JB, 3, 91. Prajāpati emetteva gli armenti. Emessi, loro andavano via
da lui. Egli desiderava: “Posso dare gli armenti a me stesso (ātman ... yaccheyam)”. Egli vedeva questa
melodia. Così, dava gli armenti a se stesso.
2. I ‘pochi’ e i ‘molti’.
Nell’India vedica, i ‘pochi’ sono
insediati con un rituale: il vāja-péya. La fase più significativa del vāja-péya
prevede questo: che il brāhmaṇá e lo kṣatrá salgano
con la testa sulla cima di uno yūpa (un palo sacrificale). Allora dei pacchetti di sale – che
rappresentano gli armenti e le víśaḥ come cibo, in questo mondo – sono gettati verso il brāhmaṇá e lo kṣatrá:
ŚBK, 6, 2, 2, 12-14. Allora gettano
(verso) di lui dei pacchetti di sale. Colui il quale sacrifica, con il
vāja-péya, consegue il cibo. (...) Il sale è gli armenti. Infatti, gli armenti sono il cibo evidente.
Perciò, divengono dei pacchetti di sale. (I pacchetti di sale) sono avvolti con
foglie di aśvatthá. L’aśvatthá è proprio ai Marútaḥ.
(...) Infatti, i Marútaḥ sono le víśaḥ. Infatti, le víśaḥ sono il cibo.
Perciò, sono avvolti con foglie di aśvatthá.
I víśyāḥ (li) gettano (*). Poiché le víśaḥ sono il cibo.
(*) I víśyāḥ possono essere tradotti come
«uomini del popolo» (e le víśaḥ,
come «popoli»). «Le víśaḥ (li)
gettano. Infatti, i Marútaḥ
sono le víśaḥ. Infatti, le víśaḥ
sono il cibo. Perciò, le víśaḥ
(li) gettano» (ŚBM, 5, 2, 1, 17).
Le víśaḥ
sono solo un cibo, insieme con gli
armenti e come gli armenti, ‘nei’
pacchetti di sale per il brāhmaṇá e per lo kṣatrá. Gli armenti e le
víśaḥ sono i ‘molti’ che
sostentano i ‘pochi’. Con lo yūpa, gli armenti
divengono il cibo dell’uomo:
ŚBK, 4, 7, 3, 1. All’inizio,
gli armenti non accondiscesero a questo: che sarebbero divenuti il cibo. Così
come sono divenuti il cibo, qui. Loro procedettero eretti, su due piedi. Come quest’uomo, così (procedettero).
“In questo modo (ittháṃ), inoltre, non ci possono immolare!”. In questo modo (táto), i Devā videro questa
folgore: il palo sacrificale. Lo eressero. Attraverso il timore per esso (per
lo yūpa), (gli armenti) erano piegati. In questo modo, erano divenuti su quattro piedi. In
questo modo, divenivano il cibo. Così come sono divenuti il cibo, qui.
L’uomo si afferma così sugli armenti, piegati: «...perciò, l’uomo – al
disopra (o dal disopra, dall’alto) – mangia gli armenti – in basso» (MS, 4, 7,
5). Un trono è portato per il brāhmaṇá e per lo kṣatrá che salgono con la testa sullo yūpa e così sono al disopra
delle víśaḥ:
ŚBM, 5, 2, 1, 22. Allora portano (pongono,
K, 6, 2, 2, 18) per lui un trono. Colui il quale ottiene (jáyaty)
un posto nello spazio intermedio (con la testa sullo yūpa), ottiene un posto al disopra.
Questi uomini (le víśaḥ,
K) – dal disotto – lo servono – seduto al disopra.
Perciò, portano per lui un trono. – Anche TB, 1, 3, 2, 3.
Sarcasmo: o fare parte delle víśaḥ
– rese un cibo e come gli armenti? o distinguersi
– sollevando la testa – e così rendere (per se stessi) le víśaḥ solo
un cibo e come gli armenti? La testa
sulla cima dello yūpa rappresenta
l’affermarsi del brāhmaṇá e dello kṣatrá sugli armenti e sulle víśaḥ.
Prajāpati induce le geniture a piegarsi:
KS, 29, 9. Prajāpati emetteva le geniture.
Loro erano andate via da lui. Loro erano andate verso l’alto. Le desiderava: “Possono tornare vicine a me”. Egli
ardeva. Egli immolava se stesso, per il sacrificio. Loro tornavano vicine a lui. Loro erano spaventate da lui. Loro erano
piegate. Perciò, gli armenti sono
piegati. (*)
(*) Anche KS, 20, 11. «Emesse le geniture,
Prajāpati desiderava: “Posso essere la loro sommità”. (...) Diveniva la loro
sommità (mūrdhā)».
Sarcasmo: prima le geniture sono andate verso l’alto e poi – sottomesse a
Prajāpati – sono piegate. Così, i
Devā si inchinano a Váruṇa – al
loro rājā istruito da Prajāpati stesso:
JB, 3, 152.
Infatti, re Váruṇa era in un certo senso sodale con le altre
divinità. Egli (Váruṇa) desiderava: “Posso essere consacrato (sūyeya) per il rājyá di tutti i Devā (*)”. Egli
dimorava da Prajāpati, in apprendistato, per cento anni. (Prajāpati)
gli diceva questa melodia: “Infatti, questa è la mia forma regale. Che (tu li)
raggiunga! I Devā ti renderanno un rājā”. Egli (Váruṇa) andava verso i Devā. Visto mentre
andava (o si avvicinava, āyantaṃ), i Devā si
inchinavano a lui. Diceva a loro: “Che non (vi) inchiniate a me! Infatti,
voi siete i miei fratelli. Infatti, come voi siete, così io sono”. “No”, dicevano,
“In quanto, infatti, vediamo in te qui
la forma di nostro padre Prajāpati”. Si inchinavano a lui.
(*) Ovvero,
per la sovranità su tutti i Devā.
«Perciò, inoltre,
questi uomini – le víśaḥ – si inchinano allo kṣatríya mentre va (e) lo servono – dal disotto» (ŚBM, 3, 9, 3, 7). Ai Devā occorre un rājā: Váruṇa. O Índra: «Prajāpati emetteva i Devā. (...) Dava loro
e il sacrificio e questi mondi. (...) Poi emetteva Índra. Egli vedeva questo tutto ripartito tra loro. Egli (Índra) diceva: “In quanto questo tutto è ripartito tra loro, allora per quale
motivo mi hai emesso?”. “Ti ho emesso”, diceva (Prajāpati),
“per il śraíṣṭhya, per l’ādhipatya di questi (Devā)”...» (JB, 2, 141). Víṣṇu riesce a
trattenere gli armenti, per Prajāpati:
JB, 2, 112. “Prajāpati emetteva gli
armenti. Emessi, loro andavano via da lui. Egli diceva ad Agní:
‘Che (tu) li trattenga, per me!’.
Egli non li (...) tratteneva. Egli diceva a Índra: ‘Che (tu) li trattenga, per me!’. Egli non li (...) tratteneva.
(...) Egli diceva a Víṣṇu: ‘Che (tu) li trattenga, per me!’. Egli li (...) tratteneva”. – Anche TB, 2, 7, 14, 1 e 2.
Le víśaḥ sono anzitutto il cibo dello kṣatríya:
TB, 2, 7, 18, 1 e 2. Infatti, le víśaḥ – i suoi,
i Marútaḥ – non rispettavano Índra. Egli – non rispettato – vedeva il vighaná (*). (...) Con questo (vighaná), sacrificava. Così, la scacciava, la loro tenacia. (...) Infatti, questa è la riuscita
dello kṣatrá. In quanto le víśaḥ – i suoi –
gli portano un tributo (balíṁ).
(*) Il vighaná è un rituale.
Nell’India antica, l’unico fine dei tributi è quello
di sostentare il rājā e i suoi bhāryāḥ.
ŚBK,
3, 2, 10, 11. Allora colui il quale sacrifica ai Devā
è colui il quale conosce: “Io qui sacrifico ai Devā.
Io qui servo (o adoro) i Devā”. Come un
inferiore può portare un tributo (baliṁ) a un superiore, o un vaíśya può portare un tributo a un rājā, così costui porta un tributo.
I Devā sono ‘superiori’ agli uomini. Come
gli armenti sostentano l’uomo, così gli uomini sostentano i Devā.
I ‘divorati’ non possono che essere più numerosi dei
‘divoranti’: «Poiché gli uomini sono più abbondanti (o numerosi)
dei Devā. (...) Poiché
gli armenti sono più abbondanti degli uomini» (ŚBK,
3, 1, 2, 1).
ŚBK,
17, 1, 4, 10. Come un armento, così costui (= colui il quale non sa e sacrifica
loro) è per i Devā. Infatti, come molti armenti possono sostentare (4) l’uomo, così ogni uomo sostenta i Devā.
Preso (= sottratto) un solo armento, è spiacevole. Che cosa (può essere per)
molti? Perciò, non è piacevole per loro (per i Devā)
che gli uomini lo possano sapere. (*)
(*)
Perciò, inoltre, la versione ŚBM dei passi ŚBK, 6,
2, 2, 12-14 e K, 4, 9, 1, 10 e 14 ‘attenua’ la
corrispondenza tra le víśaḥ e i paśávaḥ.
Anche ŚBK, 7, 1, 3, 1 e 2, a seguire.
Così,
l’India vedica cerca di superare i Devā.
Non è piacevole che gli uomini – resi come gli armenti – possano sapere e sottrarsi. E non si tratta certo –
nell’India vedica – del solo ambito dei sacrifici ai Devā
o dei tributi allo kṣatríya. Gli armenti e
gli uomini non sono solo un cibo: attraverso di loro, il rājanyá realizza ogni opera, ogni azione:
ŚBK, 7, 1,
3, 1. Con questa (offerta), i Devā attinsero
agli uomini. Allo stesso modo (dei Devā),
con questa (offerta), questo (rājanyá) attinge (úpaiti) agli uomini: “Posso
essere consacrato, provvisto degli uomini!”. Poiché, provvisto degli uomini, (il rājanyá) è in grado di fare l’opera
(l’azione, kárma) che intende fare (o desidera di fare). Poiché, attraverso gli uomini, egli è in grado
(di fare).
ŚBK, 7, 1,
3, 2. Con questa (offerta), i Devā attinsero
agli armenti. Allo stesso modo (dei Devā),
con questa (offerta), questo (rājanyá) attinge agli armenti: “Posso essere
consacrato, provvisto degli armenti!”. Poiché, provvisto degli armenti, (il rājanyá) è in grado di fare l’opera
che intende fare. Poiché, attraverso
gli armenti,
egli è in grado (di fare).
Gli uomini sono come gli armenti. In un altro testo,
che impressionò Willem Caland (Das Jaiminīya-Brāhmaṇa in Auswahl, Amsterdam: 1919, par. 97), i Devā
si distinguono dagli uomini:
JB, 1, 276. ...perciò,
i Devā non ritornano. ...perciò, inoltre, le geniture (i giovani, o gli
uomini, prajāḥ) e vanno via e fanno ritorno. (Gli animali
addomesticati, JB, 1, 106) vanno lontano, la mattina; loro tornano insieme, la sera. Lo sperma è
versato, in avanti; è generato (prajāyate, dopo la gestazione),
indietro.
I ‘pochi’
considerano i ‘molti’ come degli armenti. – Prajāpati e Índra sono singoli. Il ‘carattere’
dei Devā
è accentuato, appena formano un gruppo:
ŚBK, 5, 1,
4, 4. Quando i Devā lo (= il Sóma) avevano ucciso, dissero a Mitrá: “Uccidi
anche tu”. “No”, disse Mitrá, “Io sono l’amico (mitrám) di tutto. Non essendo
l’amico, (io) diverrò il nemico (amítro)”. Loro dissero: “Infatti, ti escluderemo dal sorso di Sóma (*)”. Egli disse: “Anche io uccido”.
Gli armenti andavano via da lui: “Pur essendo l’amico, è divenuto il nemico”. –
Anche ŚBM, 11, 4, 3, 2.
(*) Il Sóma è una
pianta che – spremuta, uccisa – dà un succo inebriante.
Sarcasmo: il primo gesto che il gruppo richiede
all’individuo – il gesto che fonda il gruppo stesso – è quello di uccidere.
3. Dare per avere.
I ‘pochi’ non si limitano a prendere: essi
danno ai ‘molti’:
JB, 2, 139 e 140. Egli (Índra) andava dai Devā: “Con
voi, con la forza, che (io) uccida questo Vṛtrá!”. Gli dicevano: “Infatti, che
(tu) lo dia a noi, questo sacrificio proprio solo a te!”. Perciò, nel rājā desiderante di vincere, le víśaḥ aspirano ad un’elargizione. Perciò, inoltre, il rājā
desiderante di vincere dà alla víś un’elargizione. (...) Con loro, con la forza, Índra uccideva Vṛtrá. I Devā vincevano gli
Ásurā. Egli – ucciso Vṛtrá, vinto – vedeva separate queste loro (dei Devā) eccellenze – splendenti. (...) Egli rifletteva: “In quale modo io
posso appropriarmi di queste loro
eccellenze?”. (...) Così, si appropriava (samavṛṃkta) di tutte le loro eccellenze (śriyas). (...) Loro
sedevano (...) vicini a lui: “Che (noi) siamo delle moltitudini (viśas), per te! Che (tu) ci induca ad aver
parte (dopo di te) nel sacrificio!”. Come
le mogli (bhāryā) siedono vicine al
marito, allo stesso modo. (...) Come un rājā – vinto – può indurre i sostentati
(bhāryān) ad aver parte nella propria ricchezza (sve vitte), così li induceva ad
aver parte (nel sacrificio).
Se ricevono
da Índra, i Devā gli appartengono.
Prajāpati non può limitarsi a divorare. Per ridurli solo a un cibo, Prajāpati
si lascia rendere un cibo dagli armenti:
PB, 6, 7, 19. Prajāpati emetteva
gli armenti. Emessi, loro erano andati via da lui, affamati.
Dava loro un prastará (un fascio di steli d’erba) – il cibo. Loro tornavano vicini a lui. Perciò, il
prastará è agitato lievemente dall’adhvaryú
(*). Poiché gli armenti tornano vicini alla paglia agitata (come cibo).
(*) L’adhvaryú è un officiante
nei rituali.
Sarcasmo: se Prajāpati dà,
solo per avere, allora gli armenti hanno, solo per dare:
JUB, 1, 11, 4.
Egli (Prajāpati) diceva: “Infatti,
(noi) viviamo di più di questi armenti.
Darò anzitutto a loro”.
«Perciò, quanti
mangiano il nostro cibo, tanti loro divengono tutti (sárve) afferrati da noi» (ŚBM, 4, 6, 5, 4). «Come
lo kṣatríya può mangiare nello stesso pātra con il vaíśya (con la víś, M, 4, 3, 3, 15),
per il desiderio della vittoria, così» (ŚBK, 5, 3, 4, 12).
Prajāpati cuoce l’odaná (un po’ di chicchi di riso cotti con il latte) e
lo dà alle geniture:
KS, 37, 1.
Prajāpati emetteva le geniture. Loro erano andate via da lui. Le desiderava:
“Possono tornare vicine a me”. Egli cuoceva l’odaná. Divenuto il cibo, egli rimaneva, unico (ekadhā). Non
(avendo) trovato un cibo altrove, loro (le geniture) tornavano insieme (ekadhā) verso Prajāpati, per il cibo.
KS, 37, 1. Infatti,
(quante) geniture numerose e lontane (yāvatīr ... kiyatīr) parlano la parola, (tante) loro tornano
insieme (ekadhā) verso di lui, per il cibo; (verso) colui il quale è
consacrato, con questo (odaná).
(...) Divengono (o prosperano, bhavanti)
tutti questi, in un certo senso; divengono
tutti i cibi, tutti gli uomini. Ottiene tutti i cibi, tutti gli uomini. – Anche TB, 2, 7, 9,
1 e 2.
Quando tornano da Prajāpati, gli armenti
divengono il cibo per lui. In quanto ricevono tutto
dall’uomo, il quale li assiste e li sostenta, gli armenti non possono sottrarsi a lui. Gli armenti rimangono con l’uomo, per ridargli tutto e per sostentarlo. Come l’uomo,
sugli armenti, così è il rājā, sulle víśaḥ.
ŚBM, 4, 6,
9, 1 e 2. Infatti,
i Devā stavano (nel) sattrá (*): “Possiamo
raggiungere la prosperità. Possiamo essere gloriosi. Possiamo essere i divoranti”. Il cibo ottenuto desiderava di andare
via da loro. Gli armenti sono il cibo. Gli armenti desideravano di andare
via da loro: “Infatti, in quanto questi (Devā) sono estenuati, ci possono
ferire! In quale modo ci
tratteranno?”. (...) Li avevano messi nelle dimore.
In questo modo, il cibo ottenuto non
andava via da loro (5).
(*) Il sattrá è una sessione sacrificale.
JB, 1, 104.
La matrice dell’ordine è la dimora. Con la forza di questa sillaba (ā), gli uomini (prajā) nati qui e si allontanano e ritornano
(ā ... gacchanti, nelle dimore).
Con le dimore, i Devā riescono infine a
far rimanere gli armenti – il cibo. (Le víśaḥ
– nelle loro dimore – rimangono come cibo per il rājā).
JB, 2, 90.
Loro (le vacche) – vedendo il padre, Prajāpati – andarono via – rallegrate. Andate via, loro si propagarono in grande.
I Devā furono preoccupati dalla loro dispersione
(6). Guidate fuori, con l’utsedhá, riprese, con il niṣédha, (i Devā) se le posero in se stessi (*).
(*) L’utsedhá e il niṣédha sono melodie rituali.
In questo
mito, gli stessi Devā
– non Prajāpati – si impongono sugli armenti. – Ad essere persuaso (dal
‘divorante’), è anzitutto il ‘divorato’:
ŚBM, 4, 6,
9, 5 e 6. Allo
stesso modo, il cibo portato (od offerto) desidera di andare via da lui: “In quanto,
infatti,
quest’(uomo) mi può ferire! In quale
modo mi tratterà?”.
All’inizio, (l’uomo) mangia un poco di questo (cibo), da lontano. Lo ferma. (All’inizio, egli
può prender[ne] da lontano, o due volte, o tre volte. Ferma il cibo [áśanaṃ]
qui da lontano a vicino, K, 5, 8, 3, 4). (Il cibo) conosce: “Infatti, non
è stato, così come ho pensato! Infatti, non mi ha
ferito!”. Si rifugia
vicino a lui (7). Colui il quale, così conoscendo, è in grado di seguire la condotta di lui (dell’uomo), costui diviene l’amato del cibo, il
divorante (del cibo).
Se il cibo è ancora
restio? Prajāpati si afferma (8) sugli
armenti e così è seguito come un esempio dall’uomo:
ŚBM, 7, 5, 2, 4. Infatti, quando (yátra)
Prajāpati intendeva immolare gli armenti, loro – in procinto di essere immolati
– avevano desiderato (o tentato) di allontanarsi (da lui). Li afferrava insieme
nei respiri (prāṇā). Afferrati insieme nei respiri, (Prajāpati) se li poneva –
da davanti a dietro – in se stesso (*).
(*) I Devā
sono come Prajāpati: «È fatto qui ciò che facevano i Devā.
Gli armenti non desiderano (o non tentano) di allontanarsi da lui. Ma
(lo) fa. “Ciò che avevano fatto i Devā, che (io) possa farlo!”.
Allora, afferrati insieme (gli armenti) nei prāṇā, (lo yájamāna)
se li pone – da davanti a dietro – in se stesso» (ŚBM,
7, 5, 2, 5).
Lo yájamāna è colui
il quale intraprende un sacrificio.
NOTE
(1) Minard
(A.), Trois Énigmes sur les
Cent Chemins. Recherches sur le Śatapatha-Brāhmaṇa, Paris: 1956, II, par. 666 e.
(2) Per la prosperità, per il cibo di Prajāpati.
(3) Le geniture sono soltanto divoranti o divorate. Anche KS, 27, 8. «Pone un vīrá nelle
geniture divoranti; l’abbondanza, in (quelle) divorate. Perciò, in queste
(geniture divoranti) nasce un vīrá. Perciò, le altre – per quanto divorate – non diminuiscono». Come gli armenti: «Perciò, gli
armenti – per quanto divorati – non diminuiscono» (KS, 28, 6).
(4) Minard
(A.), op. cit., par. 596.
(5) «Infatti, i Devā prevalevano. Mettevano (gli
armenti) nelle dimore. In questo modo, il cibo non andava via da loro» (ŚBK, 5, 8,
3, 2). Ulteriore sarcasmo: solamente Yamá, con i Padri (con gli Antenati), dà un insediamento: «Allo stesso modo,
Yamá, lo kṣatrá, con l’accordo dei Padri,
della víś, gli dà un insediamento, in
questa (terra)» (ŚBM, 7, 1, 1, 4).
(6) «Allora
dissero: “(Prajāpati)
era preoccupato dalla dispersione (parāvāpād
abibhed) di queste geniture emesse”» (JB, 2, 288). I Devā
sono come Prajāpati.
(7) Lo stesso termine si ritrova qui: i Devā
strappano la pelle dell’uomo e la pongono sulla vacca: «Non può essere
nudo vicino alla vacca. La vacca conosce: “Io porto (= indosso) la sua pelle!”.
Ella – spaventata – fugge: “Potrebbe prendersi la mia pelle!”. Perciò, inoltre, le
vacche (gli armenti, K, 4, 1, 2, 9) si rifugiano vicino a colui il quale è vestito bene» (ŚBM,
3, 1, 2, 17).
(8) Váruṇa è Prajāpati stesso: «Divenuto il Sole,
Prajāpati emetteva le geniture. Loro lo disdegnavano. Loro andavano via da lui.
Divenuto Váruṇa, (Prajāpati) induceva Váruṇa ad
afferrarle, le geniture. Loro, le geniture afferrate da Váruṇa, andavano ancora
da Prajāpati, ricercando soccorso»
(TB, 1, 6, 4, 1).
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